CHIAMALO, SE VUOI, EQUILIBRIO

Mio figlio sembra provenire da una famiglia di acrobati, anche se non pare risultare in nessuna parte dell’albero genealogico alcun ascendente circense.
Non so se la sua propensione all’equilibrismo sarà mantenuta in futuro, ma tant’è. Al momento continua ad allenarsi molto, sui muretti, le sedie, la spalliera del divano e in tutti i luoghi impensati che ritiene consoni ai suoi baby-obiettivi.

Mi sono spesso interrogata sul significato di quella cosa che normalmente chiamiamo equilibrio e continuo a maggior ragione a farlo dal momento in cui sono diventata madre.
Dovessi augurare qualcosa ad un essere umano che viene al mondo, penso che la prima cosa che mi verrebbe in mente sarebbe proprio la speranza che cresca persona equilibrata. Nel corpo e nello spirito. Che le due cose mica sono separate e indipendenti, come spesso siamo portati a credere.
Che quello che abbiamo dentro sempre si manifesta, in modi più o meno evidenti, in ciò che di noi portiamo all’esterno.
Credo che l’equilibrio rappresenti la (rara?) capacità di adeguarsi in continuazione a quello a cui la vita ci sottopone, adattando il nostro modo di essere a diverse situazioni, circostanze, problemi, persone, sfide. Ma sempre tenendo ben presente chi siamo noi.
Ogni giorno, ogni momento é diverso dal precedente. Noi siamo diversi, anche se spesso non lo sappiamo. 
E capita che debbano accadere cose strane ed eclatanti per farci faticosamente comprendere che, magari, ciò che sino a poco prima era l’ideale di vita per noi, ad un certo punto non lo é più.
Perché niente é immobile, niente é immutabile. Almeno in questa vita.
A volte si chiama evoluzione, a volte tornare a sé. A quello che davvero noi siamo, nel profondo del nostro essere, ma l’abbiamo dimenticato.
Perché, magari, qualcuno o qualcosa, in mesi, in anni, ci ha fatto pensare che quel “come siamo ” forse é sbagliato, inadeguato, insufficiente a quanto “il mondo” ci chiede di essere.
E abbiamo cambiato strada, senza neppure accorgercene troppo, anche faticando molto, perdendo pezzi di noi, perché mica é scontato per un gatto abbaiare come se fosse un cane. Perché una tartaruga può magari provare a correre alla velocità della lepre, ma dopo schiatta.
Eppure. Pensavamo di avercela fatta. Di essere riusciti a cavarcela, anche con risultati dignitosi magari. 
Con qualcuno che ci ha fatto pure i complimenti, con qualche bella pacca sulla spalla.
Ma. C’é spesso un ma. 
Che quella persona che appare fuori, magari non corrisponde a quella che il nostro spirito ha come immagine di se stesso. 
E capita che sian dolori. In senso letterale, anche.
Che si stia male, non capendo bene perché. 
O che non si stia poi così malaccio, ma neppure così felici come qualcuno potrebbe pensare e credere, guardando da fuori.
Che basti qualche piccola o grande cosa, un imprevisto, un dolore, per farci perdere in un solo colpo tutto ciò che pensavamo di aver costruito in una vita intera.
E addio equilibrio. 

Perché provate un po’ a mettervi su un piede solo, nel momento in cui avete anche solo un po’ di mal di stomaco. E guardate cosa succede. 
Provate magari anche a chiudere gli occhi, sul piede solo. E sentite cosa succede.

Questo vorrei trasmettere a mio figlio, e dico apposta “trasmettere” e non “insegnare“. 
Che anche io non so nulla e quel poco che so é frutto di una continua lotta quotidiana.
Di un passo avanti e tre indietro.
Di una guerra contro un mondo che normalmente la pensa esattamente all’opposto di così. 
Dove tutti ti dicono che ti devi sacrificare, ma non ti spiegano mai esattamente cosa significa quella parola e, soprattutto, per cosa lo dovresti fare.
Dove ti dicono che devi alzarti ogni mattina e imparare a correre.
Ma non dove devi andare. Perché. E per chi.
Dove ti fanno credere che la velocità é bene e la lentezza é male. 
Ma nessuno che ti spieghi che, per diventare davvero molto veloce, é probabile che prima tu abbia dovuto essere davvero tanto lento.
E chi l’ha deciso, poi, che una cosa é così meglio di un’altra.
Tu lo sai, lo puoi sapere se ci pensi. Tu. Da solo. Con la tua testa, la tua pancia, il tuo cuore.
Solo tu e nessun altro.
E allora, magari, dopo tanto lavoro, un po’ di equilibrio lo trovi.
E riesci anche a stare su un piede solo, con gli occhi chiusi.
Fino alla prossima volta, fino alla prossima sfida. 

É questo che auguro a mio figlio. 
E a tutte le mie donne, con un immenso abbraccio.

E CHISSÀ TRA DIECI ANNI

Mio figlio é ormai dotato di una dentatura quasi completa, mancano all’appello solo i molari.
La situazione esige, quindi, una corretta e costante attività di igiene orale onde evitare spiacevoli e precoci incontri ravvicinati col dentista.
Avevamo iniziato abbastanza bene. Così, per gioco, anche quando i denti erano in realtà pochini e tutta la procedura praticamente una simulazione di quel che sarebbe stato poi, quando la dentatura avrebbe cominciato a richiedere adeguata manutenzione.
Il Patato che, prima di andare a dormire, sperimentava l’utilizzo del suo baby-spazzolino ad imitazione di mamma e papà. Che sembrava quasi ascoltare con interesse le indicazioni genitoriali: “Pulisci bene sopra e sotto, i dentini davanti e quelli in fondo…”
É durata poco. Sarà l’influsso dei Terrible Twos che oramai spopola come le foglie secche in autunno, ma ultimamente l’attività di pulizia dentale sembra diventata una maratona, una sfida all’ultimo sangue.
Avevamo iniziato col rifiuto dello spazzolino per bimbi, io mica sono piccolo!!! Voglio lo spazzolino uguale a quello che avete voi!
Dopo aver tentato di resistere qualche giorno, ed appurato che l’effetto era solo quello di un categorico rifiuto di lavare i denti se non con lo spazzino di papà (fulgido esempio di sopraffine regole igieniche!!!), abbiamo provveduto all’acquisto dello spazzolino “da grandi”.
Siamo poi passati alla richiesta di avere il dentifricio, se no non si apre neppure la bocca. E tu lì, a centellinare micro dosi del dentifricio 0-6 anni (quello insapore), che lo sciamannato mica riesce ancora a sputarlo con diligenza, e quindi quello che metti devi considerarlo allegramente ingoiato sino all’ultima minuscola particella.
Ogni sera i riti si moltiplicano. Voglio papà, che deve lavare i denti insieme a me. Poi voglio la mamma, pure lei impegnata nella medesima contemporanea attività. Deve vedermi la nonna (quando é a casa da noi). Lavo i denti (e si fa per dire) mentre corro come un pazzo avanti e indietro dalla camera al soggiorno. La porta del bagno deve essere chiusa, poi, no, meglio aperta. Devo sedermi sul coperchio del WC, ma no, forse é meglio se papà mi prende in braccio!
Ovviamente, in tutta questa frenesia, i denti non si lavano. Il fetentone si limita a succhiare lo spazzolino, massaggiandosi le labbra e poco di più.
É evidente che qualsiasi tentativo di intervento direttivo genitoriale sia destinato al più misero fallimento. “Dai, apri la bocca che la mamma ti aiuta un pochino”…. “Vieni da papà che puliamo bene i denti in fondo che se no ti vengono i buchi…”
Niente. Né con le buone, né con le cattive.
Il problema é che ogni tanto la mamma perde la pazienza. Che tanto paziente non lo é mai stata.
Per cui venerdì sera, dopo un quarto d’ora abbondante del solito teatrino, ha preso in braccio il pupo, gli ha in qualche modo fatto aprire cinque millimetri di bocca per infilare quel maledetto spazzolino.
Urla mai sentite. Come lo stessero scuoiando per fargli lo scalpo. Lacrime. Imprecazioni in bambinese. Rischio di un intervento d’ufficio del telefono azzurro.
Fuga dal bagno, gridando a squarciagola “Papà, papà, papà….” (e ti pareva)….”Andare viaaaa IOOOOO”!!!!! Andare viaaaa IOOOOO”!!!!!
Ma come andare via?! E dove vorresti andare?!!!?
Dirigendosi verso la porta d’ingresso e arrampicandosi nel tentativo di arrivare alla maniglia “Andare viaaaaaa!!! Andare viaaaa!!!!”
Signori, la creatura ha DUE anni. Non so come arriviamo ai dodici.

PARTIAMO DALLE CERTEZZE

“Ogni nome un uomo
ed ogni uomo e’ solo quello che
scoprirà inseguendo le distanze dentro se
Quante deviazioni
quali direzioni e quali no?
prima di restare in equilibrio per un po’
Sogno un viaggio morbido,
dentro al mio spirito
e vado via, vado via,
mi vida cosi’ sia

Sopra a un’onda stanca che mi tira su
mentre muovo verso Sud
Sopra a un’onda che mi tira su
Rotolando verso Sud”

(Rotolando verso sud – Negrita 2005)

In fatto di gusti musicali confesso di essere sempre stata molto esterofila. La mia playlist, soprattutto fino a qualche anno fa, era al 90% composta da canzoni straniere. Una delle poche eccezioni era proprio “Rotolando verso sud” dei Negrita che, già da quei primi ascolti in radio, quando quasi neppure presti attenzione alle parole, “mi diceva qualcosa”. E continua a dirmelo, a distanza di anni.
Sogno un viaggio morbido, dentro al mio spirito e vado via, mi vida così sia…”.
Oggi é pure nella top ten (meglio sarebbe dire top three) di mio figlio. Ma questa é un’altra storia.

In questi giorni mi sono spesso tornate in mente queste due strofe, mentre mi trovavo a riflettere sulle numerose discussioni (e polemiche?) circolate in rete sulla annosa questione “mamme che lavorano – fuori casa – e mamme che non lavorano – fuori casa”. In particolare nate da un post apparso recentemente nel blog di Mammeacrobate dal titolo “Rinunceresti alla carriera per i figli?
Ci ho ragionato un po’ su, cercando di non farmi troppo condizionare da quello che avevo letto e dalla piccola “battaglia ideologica” che ne é scaturita.
La mia convinzione é quella che, forse, tutte le donne e le donne-mamme che ne hanno dibattuto sarebbero state molto più concordi nelle riposte se la domanda fosse stata posta in altri termini. Tipo: “Rinuncereste a quello che siete per un figlio?” Con ciò volendo significare a quello che per voi conta di più nella vita? Ai vostri sogni, le vostre passioni, la vostra libertà (e ognuno ci metta la propria idea di libertà), la voglia di affermarsi e sentirsi apprezzate per ciò che si é, per quanto di bello e buono si é capaci di creare e costruire?
Ecco, se qualcuno mi avesse fatto una domanda così credo non avrei avuto neppure un secondo di esitazione nel rispondere NO!
Perché ciò significherebbe privare se stesse e i propri figli della parte migliore di sé, restando un “vuoto contenitore” al quale viene appiccicata la parola “mamma”. Una mamma infelice.
É chiaro, poi, che per qualcuna il lavoro, la carriera, chiamiamolo come ci pare, possa essere proprio una delle cose più importanti della sua “lista”. Perché lo ama, ci ha investito forze, tempo, sacrifici e se ne sente più che adeguatamente ripagata.
E, allora, no. É chiaro che ad una cosa così non si può rinunciare, senza correre davvero il rischio della trasformazione nella casalinga disperata.
Per altre donne non é detto che “la parte migliore di sé” sia necessariamente rappresentata dal lavoro, ma magari da altri spazi di realizzazione personale al di fuori delle mura domestiche: interessi, attività, relazioni.

Ci sarebbe, poi, un’altra parte di ragionamento da fare. E cioè se quei miei interessi “altri” rispetto ai figli (che sia il lavoro o tutte le altre cose che ci siamo detti) si realizzino in modo sufficientemente armonico ed equilibrato da salvaguardare le esigenze di tutti, in primo luogo quelle dei bambini, almeno sino a quando necessitano anche fisicamente un certo tipo di presenza del genitore (e, attenzione, dico apposta “genitore” e non “mamma”).
Ma per questo credo proprio sarebbe necessario un altro post :-)!

HO LETTO UN LIBRO

Commozione é diventata un po’ una parola scontata. Dire “mi sono commossa” ogni tanto dà il sentore della lacrimuccia che scende a tradimento durante la scena clou della soap preferita.
Non é un termine che mi piace molto. Ma sento anche difficile l’esercizio linguistico di trovare un sinonimo dignitoso. Che renda comunque un vissuto di un certo tipo: quello che hai sentito “muovere dentro” in quella ben precisa circostanza.
Ho appena finito di leggere “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, che avevo scoperto alcuni mesi fa grazie ad una puntata de “Le invasioni barbariche” in cui Daria Bignardi aveva ospitato Franco Antonello, il padre di Andrea, il ragazzo autistico di cui lo scrittore Fulvio Ervas ha mirabilmente raccontato la storia.
Che non è una storia qualsiasi, perché é la storia speciale di un padre e di un figlio “diverso”, malato, problematico, difficile.
La storia di una persona che oggi é maggiorenne e alla quale é stato diagnosticato l’autismo quando aveva tre anni.
É la storia di un padre che vuol vivere la vita con suo figlio, facendo esperienze vere e meravigliose, anche se Andrea é malato e, magari, quelle esperienze lì son considerate poco adatte.
Tipo quella di prendere un aereo, nell’estate di due anni fa, volare negli Stati Uniti e affittare una Harley per un coast to coast. E poi farsi trasportare dal viaggio, tre mesi senza programmare nulla, senza decidere nulla in anticipo, e attraversare l’America, intesa come tutto il continente.
Volare in Messico, viaggiare in auto, in pullman, con quello che si trova nel percorso, fino al Guatemala, al Costrica, a Panama, e arrivare in Brasile.
Incontrare persone, quasi tutte meravigliose persone, che accolgono, aiutano, comprendono.
Mi aveva colpito tantissimo sentire questo padre raccontare di suo figlio, del loro viaggio, della loro vita, durante la trasmissione. Sempre col sorriso, con un’energia incredibile e apparentemente inesauribile. Mi ero ripromessa di leggere il libro, prima o poi. É passato qualche mese, ma ce l’ho fatta.
E potrei dire tantissime altre cose, quello che a me risuona nella pancia nel leggere di un viaggio così, con tuo figlio. E del fatto di avere a tua volta un figlio quasi della stessa età in cui ad Andrea Antonello hanno diagnosticato l’autismo. Riflettere sul fatto che, per i primi due anni di vita, Andrea era stato un bambino “normale”.
E poi chissà cosa é successo. Perché.
Ma non é di questo, ora.
Perché volevo solo condividere di aver letto un libro bellissimo. Una storia che, a tratti, pare quasi incredibile.
E che, sì, mi sono commossa. E che non saprei come dirlo altrimenti.

YOGA & ME

Chi sono. Chi voglio essere. Dove voglio andare. Cosa realizzare nella vita.
Domande, pensieri. Dubbi e opportunità. Così é iniziato il mio anno sabbatico.
Fermare un fiume incontrollato di eventi. Fermarsi. Definire nuove mete e riprogrammare il viaggio. Con nuovi strumenti, nuove idee, nuove energie.
Come fare? Ognuno ha una sua strada, che dovrebbe preferibilmente trovare da sé, conoscendo e comprendendo, tra le mille possibilità che ci vengono offerte, qual é la “nostra”, quella più adatta a noi e rispettosa di come siamo.
Non é una scelta intellettuale, basata su principi teorici astratti, ideologie o precetti, convinzioni assolute e regole.
È qualcosa di basato sull’esperienza vissuta che, ad un certo punto, ci fa dire che quella via può essere la nostra, quella vera, quella giusta per noi. E, magari, non esserlo per qualcun altro, neppure se é nostro marito, nostro figlio, o la nostra migliore amica.
Questa mia strada é segnata da incontri, il primo, ormai lontano, di tanti anni fa. Studiavo ancora e una sera alcuni amici mi avevano invitato ad una lezione di prova di un corso di yoga.
Ricordo un colpo di fulmine, l’improvvisa e inaspettata sensazione di aver trovato finalmente qualcosa che, senza sforzo alcuno, mi faceva stare bene. Così, quasi avessi miracolosamente azionato una levetta magica.
Ma il colpo di fulmine, oggi non ricordo perché, non produsse in quel momento nessuna relazione stabile. Non mi iscrissi al corso, anche se continuai a pensarci per un bel po’.
L’avrei fatto qualche anno dopo, quando già lavoravo.
L’avrei poi lasciato, complici un trasferimento, una convivenza e un matrimonio, per poi ritrovarlo, con altre persone, altri maestri, altri obiettivi.
Se oggi qualcuno mi domandasse perché, nell’immenso catalogo del mondo, io abbia scelto proprio lo yoga, avrei una sola risposta: perché voglio stare bene.
E questo, mi pare di aver capito, é esattamente il fine ultimo di una tradizione millenaria arrivata fino a noi che, in concomitanza con il mio anno sabbatico, ho deciso non solo di continuare a praticare, ma di iniziare a studiare.
Arrivo dal primo di tanti weekend interamente dedicati a questo. Dal primo giorno di un primo anno di lavoro a cui dovrebbero seguirne ben altri.
Come sempre mi capita quando devo iniziare qualcosa, ho avuto momenti di incertezza, di dubbio, di perplessità.
Quel subdolo “Ma ce la farò? Riuscirò a capire, a seguire? Troverò il tempo? Non sarò troppo stanca, affaticata, presa da altre priorità?”
Le risposte ultime arriveranno forse solo alla fine.
Oggi posso dire di aver trascorso due giorni, orario 9.30 – 18, seduta su un materassino a terra, ad ascoltare cose di cui so pochissimo, a riflettere su cose di cui non conosco nulla. E.
Non ricordavo che imparando il tempo fuggisse così veloce.
Non ricordavo il significato di sentirsi stanchi per aver dedicato del tempo qualcosa di tanto vero per sé.
Non ricordavo di come ci si senta felici quando si sa di aver imparato davvero qualcosa.
Non ricordavo quanto fosse appagante spendere energie per essere ripagati con qualcosa che dia energia. Del doppio dell’energia che hai speso.

CIAO OCCHIBELLI!

L’asilo nido del Patato si trova nello stesso edificio della scuola dell’infanzia (io mica sono abituata a chiamarla così, per me continua ad essere la “scuola materna”. Dovrò farmene una ragione entro il prossimo anno).
Alla fine dell’orario pomeridiano spesso si incrociano all’uscita i bimbi dell’uno e dell’altra, in un delirio cacofonico di passeggini, monopattini, biciclette, insieme a mamme, nonni, eccetera eccetera. Vorrei dire anche papà, ma la cosa costituisce ancora una notevole eccezione, ad esclusione dei turnisti e (purtroppo) dei cassaintegrati – disoccupati.
Uno spicchio di mondo che sarebbe interessante anche osservare senza “secondi fini”, mettendosi lì, in un angolino, zitti zitti per una mezz’oretta, rischiando però che qualcuno chiami i carabinieri, considerandolo un comportamento sospetto.
Ieri uscivo dall’asilo, mio figlio per mano, il passeggino nell’altra, pronti per il giretto di rito, votato all’osservazione del mondo che, di questi tempi, significa in grande prevalenza la caccia alla ruspa e allo schiacciasassi del cantiere. Più grandi sono, più sono in movimento e migliore sarà il nostro pomeriggio.
Nei sei-sette metri di percorso dal cancello dell’asilo al marciapiede ci troviamo improvvisamente davanti un bambino della materna (ehm, pardon, della scuola dell’infanzia), sui quattro o cinque anni, che si mette di fronte al Patato, lo guarda e gli dice “Ciao occhibelli!”
Sopraggiunge il nonno che, dopo una rapida occhiata, si rivolge a me con aria interrogativa, chiedendo “Suo figlio é maschio, vero?”
Sì, é un maschio…
Allontanandosi col nipotino lo apostrofa con un “Ma tu dici occhibelli ai maschi?!”
E io dico: MAH…

DISTANZE

Estranea in terra straniera, é così che mi sento ogni tanto.
Ho amiche altrove che faccio fatica a vedere e, a volte, addirittura a sentire.
Nessun uomo é un’isola, diceva il saggio, ma io a tratti mi sento molto isolana.
Ho scelto di lasciare il luogo in cui sono nata, di lavorare altrove, di vivere altrove.
Credo di avere fatto quanto di meglio potessi, considerate le circostanze, e non penso farei in modo tanto diverso anche qualora potessi premere il tasto “rewind“.
Ho trovato orgoglio nella mia solitudine, nell’autonomia guadagnata anche a caro prezzo.
Ma capita che sia difficile.
Difficile non poter fare due passi, suonare a una porta e dire semplicemente “Ciao“, due chiacchiere sulla giornata, dritta o storta che hai vissuto, un caffè, una pizza ogni tanto, indipendentemente da tutto, dai figli, e dalla vita altrove.
Qualcuno dice che oggi tanti strumenti hanno ridotto immense distanze.
Possibile, ma non sono per tutti. Ho pochissime amiche così, perennemente connesse con l’etere, e anche io mi sento poco portata.
Serve un divano, una tazza di té e qualche minuto di pensiero libero, di calore nascosto nelle parole, la voglia di mettersi in gioco e parlare del vero.
Il rischio é di perdere il filo, il senso di ciò che si é, la voglia e il coraggio di condividerlo a chilometri di distanza.
E capita, poi, che qualcosa non vada. Problemi, avverse fortune, dubbi e dilemmi. I nudi fatti della vita.
E vorresti colmare quello spazio vuoto, ripercorrere a ritroso il sentiero, seguendo le briciole del Pollicino previdente. Vorresti essere là, anche fisicamente vicina, per tentare analisi e sintesi, quelle cose che solo le donne così bene sanno fare.
E trovare insieme la strada, tutte per una, una per tutte.
Poi mi dico che, forse, questo tempo é passato. Che con l’età gli esseri umani davvero tendono a diventare isole, sempre più distanti anche da chi é lì, incredibilmente vicino.
Troppo presi e persi dai propri vuoti, incertezze e paure, così da dimenticare che, sotto il mare, tutte le isole isole non sono.

GIRL POWER

Quando ho scoperto di essere incinta, e pure prima in verità, non avevo alcuna reale preferenza sul sesso del mio futuro figlio.
Appartenevo alla categoria di donne-future mamme che, alla classica domanda che prima o poi qualcuno per forza ti fa: “Preferiresti un maschio o una femmina?” rispondeva inevitabilmente “Non importa, purché stia bene”.
E, almeno per quanto mi riguarda, ormai a distanza di un discreto lasso di tempo da quegli eventi, devo dire che quella risposta non aveva per me alcun connotato di luogo comune, quella cosa che si dice perchè sta bene così, sperando poi, magari, nei propri intimi pensieri, di potersi sbizzarrire in folli acquisti di tutine rosa confetto, o, al contrario, di dipingere la cameretta azzurro cielo.
Per me l’unica cosa che in quel momento aveva un senso sperare era che il mio bambino fosse sano e, per quanto possibile nello stato embrionale in cui si trovava, felice.
Oggi posso dire di essere contenta di aver avuto un figlio maschio, ma credo profondamente che lo sarei stata nella stessa misura se fosse nata una femmina.
Che poi avessimo impiegato più di cinque mesi a deciderne il nome, mentre quello di donna sarebbe stato selezionato in due o tre giorni al massimo, è un dettaglio che considero sostanzialmente casuale, o tutt’al più determinato dal fatto che ci sono molti più nomi di donna interessanti rispetto alla corrispondente versione maschile.
Comunque. Il Patato è il Patato, maschio, bellissimo, simpatica canaglia, scatenato all’inverosimile. E a me sembra anche un bimbo intelligente, acuto osservatore, veloce nel comprendere e nell’apprendere.
Ogni tanto, quando fa la grazia di concedere qualche minuto di tregua al suo moto perpetuo, mi metto lì, zitta, e lo osservo nei suoi esperimenti di psicomotricità. Nelle sue acrobazie, nei suoi tentativi di vincere la forza di gravità.
Ogni tanto, confesso, cuore di mamma dice anche: “Wow, che bambino sveglio che mi è capitato!”
Poi mi capita di andarlo a prendere al nido e vedere lì, tutti insieme, i bimbi e le bimbe della sua classe. Tutti quanti più o meno della stessa età, tutti dai due anni in su. E lì, osservando un attimo, si nota l’abisso.
Venerdì pomeriggio, entro, lui si alza dal tavolino dove sta finendo la merenda e viene verso di me. Mi sorride, ma non parla, non dice mamma, non dice ciao.
Vicino a lui c’è una sua piccola compagna, la cui nonna sta parlando con l’educatrice, e lei si avvicina a me e al Patato. Era con lui anche lo scorso anno, nell’altro nido. La saluto, le dico ciao.
Lei mi risponde: “Ciao, quella lì è la mia nonna“. E io: “Ah si, bene! E come si chiama la tua nonna?” “Anna”
In tutto questo mio figlio, muto come un pesce, continua a smangiucchiare il suo pezzo di pane e a non stare fermo finché riusciamo finalmente a togliere il disturbo.
Usciti dall’asilo ci facciamo il solito giro, i giardini e, giunta l’ora, ce ne torniamo verso casa. Arrivati all’angolo vediamo avvicinarsi un’altra sua compagna di nido, insieme alla mamma che è appena andata a prenderla. A distanza di qualche metro io dico: “Patato, guarda, c’è la tua amica dell’asilo, dille ciao”. E la bimba, ancora lontana: “Ciao Patato! Ciao!”
Dalle nostre parti il silenzio più assoluto e profondo. Nessun cenno, nessuna risposta.
E lo sappiamo tutti che maschi e femmine sono diversi. Che hanno abilità differenti e tappe di sviluppo non coincidenti, soprattutto per quanto riguarda il linguaggio e il non farsi più la pipì addosso 😉
Che non ha senso di per sé fare confronti, tra un bambino ed un altro, figurarsi tra bambini di sesso diverso che magari hanno anche qualche mese di differenza. Mesi che a questa età sembrano secoli per le cose che cambiano in così poco tempo.
Eppure, ogni tanto, quando li vedo lì, gli uni impegnati a distruggere il mondo, lanciando grida da cavernicoli con la clava, e le altre, sedute a chiacchierare mentre preparano il tè nelle loro tazzine di bambola, organizzate, costruttive, mi dico che questi qui mica ce la possono fare.
E mi tocca un grande sforzo, ogni volta, ricordare le perle di saggezza di “Caveman“, una delle commedie più intelligenti (e divertenti!) che abbia visto a teatro, per farmi tornare in mente che no, gli uomini, poverini, non sono così perchè sono str….(men che meno da piccoli!), sono solo diversi, e non riescono a far funzionare più di una parte del cervello per volta!

IL GIORNO IN CUI

Un giorno del mese di settembre di tre anni fa un aereo mi riportava a casa, dopo una settimana di vacanza nel mio mondo magico. 
Era stata una settimana speciale, l’avevo percepito subito vivendo quei momenti – cosa non sempre facile o scontata – ma avrei impiegato ancora un po’ di tempo per rendermi pienamente conto di quanto lo fosse stata davvero.
Da allora, ogni anno festeggio un mio intimo e personalissimo anniversario che spero, prima o poi, di poter degnamente celebrare là, dove tutto ha avuto inizio, con le persone che più amo al mondo.
Quel giorno, sul volo di rientro, “scoprii” Tiziano Terzani e il suo “Un indovino mi disse”.
Dopo averlo corteggiato a lungo, a spasso per librerie, un bel momento mi decisi a comprare per la prima volta un suo libro. E a iniziare a leggerlo.
Seguirono, nei mesi successivi, “Un altro giro di giostra“, forse il libro che, in assoluto, ha più cambiato la mia vita, e “La fine è il mio inizio“.
Comprai per la prima volta una Moleskine tascabile, nera, coi fogli a righe, e iniziai a portarla in borsa con me tutti i giorni, al lavoro, in metropolitana, sui treni che mi capitava di prendere in caso di trasferte. 
Iniziai a scriverci, molto poco in verità. Qualche appunto di emozioni, tempi e luoghi, perchè, in un certo momento, in modo improvviso e inaspettato, avevo sentito la necessità di cogliere quegli attimi, fermandoli sulla carta, per non lasciarli correre via e perderli nel fiume in piena delle troppe cose.
Poco tempo dopo scoprii di essere incinta e i libri di Terzani diventarono parte della mia gravidanza. A qualcuno potrebbe magari sembrare strano, dati i temi degli ultimi due, ma posso assicurare che per me niente riesce a parlare della vita, alla vita, come quelle parole.
Continuai a scrivere, ma leggevo di più, e oggi un po’ ho il rammarico di aver perso l’occasione irripetibile di un diario della mia gravidanza. 
Ora che conosco e leggo tanti blog di mamme so che difficilmente si trovano cose tanto ispirate e belle come quelle scritte dalle donne incinte. È un’occasione perduta, ma  non più recuperabile.
Il mio ritorno sistematico alla parola scritta sarebbe arrivato dopo, molto più tardi. Con questo blog, strappato ai sogni in una sera di primavera del mio anno sabbatico.
Perché proprio oggi mi sia messa a pensare a queste cose, in realtà, non so.

ASTENERSI CUORI DI MAMMA

Avvetenza. Consiglio l’astensione dalla lettura di questo post a tutte le supermamme, le mamme DOC, DOP, DOCG, a tutte quelle che hanno trovato, per miracoloso intervento di una entità superiore, il senso assoluto della loro esistenza alla prima vista del test di gravidanza positivo, a quelle disposte a dichiarare fino alla morte – e anche oltre – che la loro cara creatura viene prima di tutto, che il loro impegno messianico nel crescere la suddetta non comporta alcuna reale fatica, nè tantomeno grande sacrificio, che le notti in bianco, la pipì e la cacca a profusione, le pappette lanciate a tradimento sul muro della cucina, il nonaverepiùunminimodivitatua sono, in realtà, così piccola cosa rispetto al dono del proprio figlio.
Ri-avverto. Il contenuto del post sarà molto poco politicamente corretto, soprattutto considerando che questo è un blog di mamma, contenuto in un sito per mamme e scritto da una mamma che – anche – per suo figlio si è presa l’anno sabbatico.
MA. Ci sono dei momenti MA, insieme ai momenti no e ai momenti forse.
Partiamo dalle (pochissime) certezze in fase autocritica.
Non sono una mamma perfetta, DOC, DOP, e tutte quelle sigle di cui sopra.
Sono una che fino ai 35 anni suonati e, per l’esattezza, fino al momento in cui ha scoperto di essere incinta, non aveva proprio idea della propria vocazione materna.
Una che non aveva la minima idea se nel proprio progetto di vita fosse contemplata anche solo l’ipotesi di un figlio (l’ipotesi, poiché l’eventuale realizzazione della stessa è, per sua ferrea convinzione, rimessa in altre mani).
Una che aveva sempre guardato con sospetto (e, a volte, guarda tutt’ora) gli altissimi esempi di sacrificio materno della serie qualsiasicosapermiofiglio.
Una che dopo due giorni di delirio ha rinunciato ad allattare il pupattolo, accontentandosi di un comodo (oddio, proprio comodo….) biberon e del latte in polvere.
Una che a sette mesi della creatura è tornata al lavoro lasciandolo nelle mani di un’estranea (bravissima, qualificatissima, ma sempre pur estranea) baby sitter.
Una che a tredici mesi l’ha piazzato in un nido di cui non era convinta, lasciandocelo, al netto delle assenze per malattie del 70%, per tutto l’anno scolastico.
Una che, quando rientrava dal lavoro, distrutta dopo una giornata da delirio seguita alla solita notte insonne, aveva come unico pensiero quello di dormire, il prima possibile e il più possibile, o almeno di sdraiarsi un quarto d’ora sul divano, e non certo scapicollarsi nel triduo gioco-bagnetto-pappa (che poi, almeno l’avesse mangiata decentemente ‘sta pappa).
Ecco, detto così, forse non suona benissimo, e si potrebbe pensare che certe cose la sottoscritta se le sia pure cercate e meritate. Che, come ricorda il proverbio, chi semina vento raccoglie tempesta. E figurati cosa puoi raccogliere con un neonato che vive al cento percento di pure, semplici, elementari emozioni.
E però. Io sono pure quella che ad un certo punto è riuscita a capire di essere al limite, ad avere la forza di mollare (eh, sì, a volte è molto più difficile avere la forza di dire basta che di continuare per inerzia verso l’inferno), di provare a ripensare la sua vita e quella di suo figlio, nella speranza che fosse per il loro bene.
E allora non è così facile, né bello, né gratificante, avere un figlio di due anni per cui esiste solo “papà, papà, papà”, che “mamma via!”, quando c’è papà, che mai un bacio alla mamma, mai una coccola dalla mamma, che solo di papà è la mano che vuole quando ha gli incubi di notte, che “papà” è la prima parola al risveglio del mattino, che solo papà può dare il latte prima di dormire.
E, magari, ogni tanto, alla mamma toccano pure i morsi, le sberle. Perchè con la mamma si deve tentare di seguire qualche regola, col papà si gioca quel poco tempo che è a casa.
Che tanto la mamma può dire qualsiasi cosa, ma non serve a nulla e non si ascolta mai.
Ecco, confesso. Mi metterò poi il cilicio, inizierò digiuni e penitenze.
Ma l’altra sera, a voce alta, con la peste ormai dormiente e il super-papà che tentava di rianimarmi dal divano, ho detto che, forse, sarebbe stato meglio adottare un povero cane abbandonato.