Il cibo, secondo me

(Testo e foto Carlotta G.)

Da bambina mangiavo molto poco, avevo scarso appetito, ero magrolina e sicuramente il cibo non rappresentava la priorità della mia vita. Capotava che in famiglia pranzi o cene diventassero di tanto in tanto autentici psicodrammi, per un pasto non gradito, rifiutato o non terminato.
Poi fu la volta della mitica zia G. che, intorno ai sette anni e in occasione di una settimana al mare, riuscì nell’impresa mai vista di farmi prendere un paio di chili, nutrendomi di focaccia, pasta al pomodoro, olive toscane e gelato.
Di lì a qualche anno mi sorse il dubbio che il problema di fondo non fosse la mia inappetenza congenita, quando il poco gradimento per i cibi che mi venivano abitualmente proposti.
Fu così che iniziai a cucinare, a mangiare ciò che preparavo e a farlo mangiare pure ai familiari.

La prima volta che assaggiai cibo etnico, in uno dei pochissimi ristoranti disponibili nella provincia lombarda, passai la notte a vomitare la cena. Non me lo spiegai, visto che il pasto era stato di ottima qualità e in ottima compagnia e mi era anche abbastanza piaciuto. Ritentai altre volte, e la cucina messicana divenne poi una delle mie preferite in assoluto. Notai più volte, in diverse occasioni, che la prima volta che assaggiavo sapori molto differenti da quelli a cui ero abituata, il corpo aveva quasi sempre una reazione di rifiuto, salvo poi adattarsi anche con grande soddisfazione le volte successive.
Ora, diversi decenni dopo, adoro cucinare, che è sicuramente una delle mie attività preferite, così come mangiare.
Ho una curiosità viscerale per le tradizioni culinarie del mondo, salvo che non contengano ingredienti di base che non gradisco.
Salirei su un aereo per andare dall’altra parte della terra solo per assaggiare qualcosa di buono e di nuovo, e col tempo ho capito che scoprire il cibo è uno dei miei modi di scoprire il mondo e farlo diventare un po’ parte di me.

Perché ho scritto questo post? Non so. Ero sotto la doccia e mi è sembrata una buona idea, in una realtà in cui ormai il cibo è considerato più che altro un problema (troppo, troppo poco, di cattiva qualità, dannoso per la salute, e così via).
Il cibo è vita e prima di tutto gioia, condivisione, amicizia, scoperta. Proviamo a fare in modo che resti tale e non diventi solo “un problema”.

Della lentezza

Scrivo ogni tanto della lentezza, e mi pare di vederli, i casuali lettori dall’altra parte dello schermo. “Perché mai andare piano, o addirittura fermarsi? Non ci si guadagna niente, gli altri credono che tu sia lento ed incapace, svogliato o stupido e si perde un sacco di tempo”.


La vita non è mai mono-dimensionale: non esiste una sola modalità, una sola velocità di esistere e di fare cose. Sopravviviamo solo inspirando ed espirando mai, o viceversa? Ci ingozziamo o digiuniamo tutto il tempo? Dormiamo o vegliamo 24 ore su 24? Se la risposta è sì, forse è il caso che prendiamo qualche provvedimento, e in fretta.
Se no, non mi è chiaro il motivo per cui in tutto il resto delle cose della vita di dovrebbe sempre andare veloci.

Almeno arrivati ad una certa età avremmo dovuto impararlo.
“La tartaruga un tempo fu, un animale che correva a testa in giù”. La guardava sempre mio figlio quando era piccolino. Qualcosa credo gli sia rimasto, forse pure troppo 😉

Propositi, convinzioni e la realtà

Devo ricominciare a scrivere, mi sono detta. Di qualsiasi cosa. Non è che non ne abbia voglia, negli ultimi tempi ho avuto miliardi di cose che mi sono passate per la mente. Troppe. Troppe e non abbastanza rilevanti, oppure davvero troppo rilevanti per scriverne sul serio. Il vicolo cieco.
Qualche giorno fa stavo palando al telefono col marito, tra le altre una brutta notizia relativa ad un conoscente. Parlo con mia madre: altra brutta notizia per un parente abbastanza vicino, poi una specie di bollettino di guerra.

“Allora, a quando qualcosa di buono? Qualcosa di bello? Qualcosa che faccia ridere?” “Quando???”
Questo è quello che mi è passato come un lampo per la mente.
Dopo qualche secondo qualcuno mi ha sussurrato all’orecchio: “Il bello è tutto il resto”.

Trovo che il benaltrismo sia una pessima abitudine, ha rovinato individui, generazioni, Paesi. La capacità di vedere la realtà per quella che è, ristabilendo gli eventi nella giusta prospettiva, non è benaltrismo. È lucidità, è essere svegli e capaci di guardare le cose per come davvero sono.
Ero più contenta dopo? Insomma.
Volersi convincere che le cose vadano bene anche quando non è vero è da idioti, come qualcuno ha fatto notare. Non è provando a convincerci che tutto il brutto in realtà sia bello che la situazione migliora. Se ho mal di testa, il malessere non mi passa convincendomi di non averlo più. Se mi sono rotta un braccio, non si aggiusterà con la forza del cosiddetto “pensiero positivo” (shame on you, a quei geni che l’hanno inventato e propagandato come la soluzione a qualsiasi malessere psicologico e esistenziale).

Altra cosa è sapere, in modo onesto e profondo che i due estremi sono sempre lì. Coesistono, si mescolano, si toccano. Cambiano di posto. Di misura e colore. La meraviglia e l’orrore, il bello e il mostruoso, la pace e il tormento. Sempre insieme, come il pane e il burro (per rubare le parole a Forrest Gump). E come diceva il grande Thich Nhat Hahn: la meditazione è sapere allo stesso tempo che la vita è meravigliosa e terribile.