MA ANCHE NO

Il Wi-fi , certo, è una bella invenzione. E anche l’iPad, l’iPhone. Che, se no, la Apple mica sarebbe la Apple. Che, se no, io adesso mica potrei essere qui a scrivere questo post. In sostanziale comodità, e gratis.
E però. C’è un però.
In questi giorni ho notato che una buona parte della popolazione presente qui, senza distinzioni di età o provenienza, è dotata di uno dei congegni di cui sopra. E lo usa dovunque, ovunque sia disponibile la connessione.
Ora, già io mi sento a tratti una perfetta idiota, nel vagare ogni tanto, col tablet in mano, alla ricerca dell’antennina magica nell’angolo sinistro dello schermo. Ho visto persone, coppie, mangiare con lo sguardo fisso all’iPad, sguardi persi nel riflesso della luce accecante del sole di mezzogiorno, con buona pace della vista. Genitori dimentichi dei figli, a loro volta scatenati in una personale baby dance, col dito a scatto nell’accarezzare il magico schermo.
Ognuno fa ciò che preferisce, è chiaro. Ma io ho riflettuto.
E ho concluso che mica sono arrivata sin qui per passare i pochi giorni di questo regalo attaccata ad un attrezzo che vivo ogni giorno, a volte tutto il giorno, per tutti i giorni dell’anno. Sono qui per un motivo, che va oltre quello di una vacanza settembrina in famiglia.
Sono qui per me. Per provare a rimettere insieme pezzi di me. Come già capitato altre volte, quando neppure lo sapevo. Sono qui per il bianco e il blu. Per l’immutabile fissità di questo orizzonte, per l’intenso profumo della macchia mediterranea che ho portato con me per tre lunghi anni. Per vivere la quiete irreale che ho trovato solo in questa terra. Per contemplare il tempo, ascoltare il silenzio e sperare che, anche nella mia testa, riesca a farsi un pochino di spazio. E ricostruire quel vuoto da dove nascono tutte le cose che contano.
C’è un tempo per ogni cosa. Oggi non è tempo di connessioni veloci. Che, se no, cosa mi son presa l’anno sabbatico a fare. E domani, chissà.

E VADO VIA, VADO VIA…O DEL COMPLESSO DI INFERIORITÀ

E alla fine sono andata via. Non per le patrie delusioni sul futuro dell’umanità, era già previsto. Ultimo piccolo stacco prima dell’inverno. Rotolando verso sud (cit). Di nuovo a casa. Pochi giorni, ma di valore. 
Sono passati tre anni, avrei dovuto baciare la terra scesa dalla scaletta dell’aereo, ma ancora una volta e’ arrivata la conferma che i figli piccoli sconvolgono l’essenza di quello che si e’, o quanto meno di ciò che si vorrebbe fare. Sempre troppo presi da loro o, forse, questo e’ solo uno dei tanti brutti viziacci italici.
Ho una ben radicata convinzione che noi italiani siamo portatori di una profonda incapacità genetica per un certo tipo di educazione dei figli.
Stamattina a colazione ci siamo trovati vicini a una famigliola francese, con una bimba della stessa età del Patato. Quella mangiava, tranquillamente seduta sulla sua sedia da adulta, il suo piatto di frutta, la torta, la tazzina di latte. 
Mio figlio, a mezzo metro, urlante come un ossesso tutto il tempo, sputando platealmente qualsiasi tipologia di cibo gli venisse offerta.
La francesina tentava ripetutamente un contatto socievole, offriva un acino d’uva, un pezzettino di dolce. Lo guardava a tratti con occhioni interrogativi e sognanti. 
E niente. Lui a continuare il suo ululato da maschio disperato: “Biglieee, Biglieee, Biglieee!!!!!”

(cit. “Rotolando verso sud” – Negrita, 2005)

NO COMMENT

In attesa che sua madre riacquisti gradualmente tutte le necessarie funzioni motorie, in questi pomeriggi il Patato e’ babysitterato dai nonni che, sfidando traffico, code e lavori in corso più o meno infiniti, si presentano al nido entro l’ora di uscita.
L’altra parte del loro lavoro di questa settimana consiste nel provvedere al reperimento di quel minimo di derrate alimentari necessario al sostentamento della famiglia, in attesa che la medesima possa provvedervi da se’, con una spesa degna di questo nome.
Ieri pomeriggio, dopo aver prelevato il nipotino all’asilo, fanno un salto al più vicino supermercato per l’acquisto dei generi di prima necessita’.
Mio figlio esce dal punto vendita con in mano due bustine di figurine degli Eroi Dreaworks, regalate con la spesa. Quello che e’ capita qualche minuto dopo i nonni lo raccontano così.
Il gruppetto esce dall’Esselunga con il pupo, il passeggino e i sacchetti delle provviste. Il Patato cammina con in mano le bustine argentate. Qualche sosta sul marciapiede, un’occhiata alla gelateria e, dopo qualche istante, il bimbo si rende conto che la bustina e’ solo una. Un’occhiata intorno e per terra, niente. Lui continua con le lamentele per il gioco svanito nel nulla. Danno un’occhiata al tratto di strada appena percorso, niente. La ricerca continua. Sopraggiunge una mamma con un bambino per mano, sorpassa gli eroi alla ricerca delle figurine perdute ostentando indifferenza, con il figlio che stringe casualmente tra le dita lo stesso oggetto scomparso.
Dopo dieci minuti mio figlio aveva dimenticato tutto l’accaduto. Ancora troppo piccolo, per fortuna, per farsi prendere esageratamente dalle figurine colorate: di solito le guarda qualche minuto, poi inizia a buttarle in aria per tutta la casa.
Noi potremmo dire tante cose. Io ne scrivo una sola: quando mi capita di sentire raccontare storie così, davvero, prenderei all’istante marito, figlio, un paio di stracci, e via il più lontano possibile. Magari in un posto dove chi ruba lo fa per sopravvivere e non per fornire, in scienza e coscienza, pessimi esempi ai propri discendenti. Fuga immediata e senza condizioni. Ovviamente blocchi muscolari permettendo.

FANTOZZI E’ UN DILETTANTE

Questa e’ la cronaca semiseria di un inizio settimana nel quale e’ evidente l’assoluta riconferma delle leggi di Murphy.
Domenica pomeriggio. Io e il Patato torniamo a casa dopo un fine settimana dai nonni (il papà e’ via per lavoro) trascorso sommersi da fisiologica e aerosol per il primo raffreddore della stagione della creatura. Nel bel mezzo del tragitto, complicato da una discreta coda da rientro, mio figlio pensa bene di schiacciarsi le dita nella maniglia della portiera nel tentativo di aprirla (e meno male che hanno inventato il blocco). Mi trovo quindi costretta a fermare l’auto con le quattro frecce su una statale a scorrimento veloce, senza corsia di emergenza, per liberare con manovra acrobatica le dita dalla morsa. Urla disperate, pianti e lamenti per il resto del viaggio. La mia parte di pensieri viene taciuta per decenza.
Lunedì mattina. Mi sveglio con tremendi dolori al braccio destro che in pratica non riesco a muovere. Colazione con antidolorifico e speranza di pronta guarigione. La giornata passa, il male anche (un po’). Mio marito rientra dal lavoro alle 21, giusto per la buonanotte. Credo opportuno rinnovare la dose dell’antidolorifico, qualcosa non mi convince. Vado a letto con l’inconscia speranza che mi risveglierò come nuova, effetto evidente del fatto che i figli spazzano via qualsiasi residuo di ipocondria presente nella tua vita. Non per altro, non ne hai più il tempo e diventi ottimista per forza.
Martedì ore 2.00 di notte. Improvviso risveglio con dolori lancinanti a collo e spalla, non riesco a fare nessun movimento senza urlare dal male. Mio marito si sveglia, il piccolo mostro, per fortuna, no. Necessito assistenza assoluta. Mi e’ scoppiato il raffreddore, ho un terribile prurito al naso e in pochi minuti esaurisco un pacchetto di fazzoletti. Ah, dimenticavo, ho il ciclo e un urgente bisogno di andare in bagno. Ore di supplizio multiplo e mi assopisco quando ormai il padrone di casa ritiene sia ora della sveglia.
Alle 6.00 del mattino la situazione e’ immutata, non riesco a scendere dal letto. Nell’emergenza faccio un estremo tentativo con il terzo antinfiammatorio. Dopo un’ora mi rassegno a capire che devo andare dal medico. Il Patato va al nido accompagnato da papà. Il problema e’ chi lo riprende nel pomeriggio. In qualche modo mi trascino fino allo studio della dottoressa che, scontatamente, prescrive quelle tanto simpatiche e indolori iniezioni per il resto della settimana. Arrivano i nonni, 50 km solo andata per recuperare il nipote dall’asilo e fare gli infermieri alla figlia. Che oggi sta messa più o meno come ieri. Dolore. Incazzatura acutissima. Si replica la giornata. Domani (forse) e’ un altro giorno.

P.s. 1. Ieri, al rientro dal medico, si e’ allagato il pavimento del bagno. Tirando l’acqua del WC si e’ creata una simpatica fontana dalla vaschetta dello sciacquone. Per fortuna sono riuscita a fermarla subito. Per asciugare l’allagamento ho dovuto attendere rinforzi. Alla prima vista della scena sono scoppiata a ridere, dopo qualche minuto meno.

P.s. 2. Con la mamma in anno sabbatico la gestione familiare, in condizioni normali, funziona abbastanza. Con la mamma fuori uso e nessun familiare a portata di mano e’ comunque un disastro 😦

LA VITA REALE

Inutile nascondere che non tutti coloro che mi sono vicini approvano o condividono la mia scelta dell’anno sabbatico. Per ragioni di età, mentalità, esperienze di vita, preoccupazioni più o meno giustificate sul mio futuro al termine di questo periodo.
Una delle obiezioni più frequenti a questa mia decisione suona più o meno così: in questi mesi io sto vivendo fuori dal mondo reale, priva di veri contatti con gli altri, dove gli altri sarebbero poi quelli che fanno un lavoro “normale”. Quelli che ogni giorno si alzano, vengono scaraventati in un qualche mezzo di trasporto che li recapita in ufficio e dove rimangono chiusi fino al momento in cui e’ (tra poco!) buio e giunge l’ora del percorso contrario. Per poi arrivare a casa, riordinare e lavarsi, cenare, sistemare in qualche modo gli eventuali figli e, finalmente, mettersi a letto. Per molti questa e’ la vita reale. Non ne esiste altra per anni.
In questi giorni mi e’ capitato di parlare con un’amica che mi diceva di aver trascorso qualche ora a leggere alcuni post del mio blog, definendoli “molto interessanti”. Interessante e’ stata una parola che mi ha incuriosito parecchio. Perche’ proprio “interessanti”, le ho chiesto? La risposta e’ stata di quelle illuminanti, nel senso che, improvvisamente, fanno scoprire ai tuoi occhi qualcosa che da tempo e’ già li’, dentro di te, ma che non si e’ ancora razionalmente manifestato in tutta la sua completezza: “PERCHE’ PARLI DELLA VITA REALE”.
Potremmo discutere ore o giorni del reale effetto del lavoro tradizionale nella vita di molte persone. Non voglio scrivere leggi assolute, lungi da me. Ci sono casi di lavori interessanti, appaganti e gratificanti che sono davvero quei mezzi di realizzazione di se’ che, in teoria, corrispondono al vecchio proverbio “il lavoro nobilita l’uomo”. Ma non e’ questo il momento o lo scopo.
Ma forse la vita reale non e’ proprio quella fatta di continue rincorse, attività pressanti e stressanti, a tratti confuse e senza senso, portate avanti in ambienti spesso ostili e sicuramente non a misura d’uomo. Forse, la vita reale e’ qualcosa che ha più a che fare con le voci che ti raccontano un parto, con bambini che nascono e crescono sotto i tuoi occhi, occhi che hanno tempo di guardarli (e ammirarli). Di passi nel vento e nel sole, di lavatrici e bucato steso nell’aria. Di cibo che prende forma nelle tue mani, di pane comprato al mattino quando e’ tutt’uno col profumo del forno. Di pensieri che nascono liberi e possono trasformarsi in parole, parole solo tue o da condividere col mondo.

Mentre scrivevo questo post mi e’ tornata in mente una bellissima poesia di Erri De Luca che, così, per assonanza, spesso viene a salutare i miei pensieri.

VALORE
Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello
che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto
(Erri De Luca)

QUEI CATTIVI ESEMPI

E’ come avere un nervo scoperto, quando un leggero soffio di vento, o qualcosa che solo ti sfiora in quel punto, e’ sufficiente a far ritornare una consapevolezza presente e immediata, l’inevitabile percezione di quel qualcosa che proprio non va.
In alcuni momenti mi pare quasi di evitare coscientemente l’argomento, quasi per un tentativo di estrema autodifesa, in altri, di maggior realismo di vita, perché mi dico che tanto nulla servirebbe a cambiare le cose.
Poi, pochi giorni fa, leggo la solita Vale-Bellezzarara e il suo meraviglioso post sulla conciliazione dei tempi di vita (e di famiglia). E mi dico: e’ tutto vero. Non che non lo sapessi, prima, ma sembra quasi che il mondo fosse riuscito nel suo lavaggio del cervello, nel convincerti che il tema sia solo un affare di donne. E preferibilmente di donne con famiglia a carico, che le altre non hanno di questi miseri problemi. Mi trovo a commentare e a riflettere.
Poi, arriva mio marito, che mi ricorda come questa settimana debba iniziare un corso di formazione, uno di quelli tenuti nell’olimpo delle scuole che contano. Di quelli dove le menti di successo sono passate da li’, dove vengono proposti i super modelli economici per salvare le imprese, gli Stati, il mondo. Di quelli che le aziende pagano salati, per far capire che fanno davvero la differenza. Questa sarà la prima settimana, full time. L’orario standard delle lezioni e’ dalle 9 alle 17.30. Bene, mi dico, così magari per qualche giorno potrà rientrare un po’ prima la sera. Eh no, mi dice. Martedì e giovedì le lezioni terminano di fatto alle 20. Dopo l’orario “ufficiale” sono previste alcune conferenze con “esperti”. Non si e’ obbligati a restare, ma tant’è. Si finisce alle 20. Con il tempo di viaggio significa rincasare non prima delle nove di sera, essendo usciti di casa alle otto del mattino. Ah, dimenticavo, poi ci sarebbero le dispense e gli appunti da leggere per il giorno successivo.
Il mio cervello si e’ improvvisamente risvegliato e ha ripescato un paio di files sepolti dall’oblio degli anni. Io questi qui, i geni della formazione, ho avuto la fortuna di conoscerli da vicino. Mi era capitato di passare di la’ e mi ero detta anche-mai-più-nella-vita. Un giorno ero rimasta in bagno qualche minuto oltre l’ora di pausa (che un’ora piena non era mai), forse c’era la coda, forse non stavo benissimo. Una docente mi viene a cercare, e non per accertarsi che fosse tutto ok. Neppure a scuola, forse neppure all’asilo. In tutto quanto veniva detto o fatto in quelle aule tutto si percepiva tranne il rispetto per le persone. La convinzione etica che CIO’ CHE VIENE COSTRUITO LAVORANDO e’ PER l’UOMO e non il CONTRARIO. Mi era servita moltissimo quell’esperienza. A scoprire chi NON sono e cosa NON voglio essere. Tredici anni dopo conservo la medesima convinzione. Che un paese che non rispetta la vita privata dei suoi cittadini che lavorano e’ destinato a qualcosa di triste. Che un essere umano non e’ biologicamente predisposto a stare dieci ore in un bunker, seduto, immobile, ad accumulare nozioni. Che dimenticare che quelle persone, forse, hanno a casa qualcuno che le aspetta o che, più semplicemente, possano avere il diritto ad un’ora di tempo per fare una passeggiata nel parco per dormire poi sonni sereni. E se nel programma del prestigiosissimo corso non c’è sufficiente tempo, beh, allora, forse, LORO hanno sbagliato qualcosa.
I giorni delle donne sono tanto più pieni di cose perché qualcun altro si e’ permesso di sbagliare la programmazione della loro vita.
Mi piacerebbe tanto che quel qualcuno parlasse. Che mi rispondesse dicendo cos’ha (o non ha) nella testa. E la risposta che non vorrei mai dover sentire e’ che adesso c’è troppo poco lavoro per permettersi di parlare di queste cose.

ULTIMI GIORNI D’ESTATE

Lo posso dire. Il mese di settembre non mi e’ mai stato molto simpatico. Per motivi che vanno anche oltre le solite questioni di ripresa-scuola-lavoro-vita-in-città e così via. Gli devo riconoscere per forza quel particolare fascino degli ultimi giorni d’estate. Le belle giornate di settembre sono belle senza confronti. Sparita l’afa, il sole caldo che non scotta più, l’aria fresca, il cielo azzurro, di quell’azzurro che solo a settembre si può vedere. E allora?!
Allora. Gli ultimi giorni d’estate sono inevitabilmente la porta dell’autunno. Le lunghe giornate di luce, che potevi pensare quasi infinite, ormai un ricordo. E col tramonto anticipato arriva, improvvisa, la consapevolezza che dovrà passare un bel po’ (un anno!) prima di ritrovare la magia dell’estate. Il crepuscolo autunnale, per mia sfortuna, non fa per me. Me lo sento inesorabilmente addosso, sulla pelle che si fa più secca e comincia a reclamare litri di crema idratante, nei capelli che cadono, nei piedi che diventano freddi anche quando davvero freddo ancora non e’. E che grande invidia per chi se ne sta tranquillamente scalzo coi rigori dell’inverno!
Il mio ideale habitat sarebbe quello dove il freddo non esiste, dove il massimo abbigliamento richiesto e’ un maglioncino e una giacca leggera. Dove potrei liberarmi dalla schiavitù dei collant multistrato e della borsa dell’acqua calda nel letto.
Esistono posti così, non son tanti, ma ci sono.
Peccato che la mia anima sia da sempre divisa in due. Siesta e rigore scandinavo. Mare caraibico e puntualità svizzera. Guacamole e frutti di bosco con panna montata. L’estremo nord e l’estremo sud, tutto insieme, in un infinitesimale spazio. La perfezione impensabile che potrà essere sempre e solo una chimera. La mia.

E TI PAREVA…

Va bene, con il post di mercoledì me la sono proprio cercata. Visto che, come e’ noto da tempo immemorabile, la sfiga ci vede benissimo.
Inizio di inserimento-bis al nido al mattino, febbre al pomeriggio. Meglio di così! Davvero l’inserimento più breve della storia, quasi mi vergognavo a chiamare l’asilo per avvertire che il Patato era già ko e che quindi il proseguimento delle attività sarebbe stato da riprogrammare. Ma li’ probabilmente sono abituati a sentirne di ogni.
La febbre per fortuna non e’ stata elevata ed e’ durata poco, giusto 24 ore. Sono pero’ comparsi sui palmi delle mani alcuni puntini rossi e qualche piccola bolla. Situazione sufficiente per una rapida telefonata alla pediatra e successivo giro in ambulatorio per la conferma dell’ipotesi di diagnosi: sindrome mano-bocca-piede. Malattia virale abbastanza “nuova”, sembra. Fino a tempi molto recenti io non ne avevo mai sentito parlare e tutt’ora molte persone, anche con prole, non la conoscono. Si tratta di una patologia tipica dell’età pediatrica, normalmente benigna, che si risolve spontaneamente in pochi giorni, ed e’ appunto caratterizzata da un esantema che compare prevalentemente sui palmi di mani e piedi e all’interno della bocca e in gola. Spesso e’ accompagnata da febbre non particolarmente alta. Provoca ovviamente stanchezza, malessere difffuso e inappetenza, anche a causa della difficoltà di deglutire determinata dalla presenza delle bollicine (simili ad afte) nel cavo orale. Non esistono terapie specifiche, solo gli antipiretici, qualora necessari per l’intensità della febbre, e un prodotto emolliente e lenitivo per il fastidio in bocca, tipo quelli a base di aloe vera. Per il corpo e’ consigliabile il bagnetto in acqua tiepida con l’amido di riso, evitando prodotti schiumogeni per non irritare ulteriormente la pelle.
Pur essendo inconsciamente preparata (no, rettifico, RASSEGNATA) ad affrontare nuovi lunghi mesi di acciacchi infantili, confesso che contavo sull’effetto estate ancora per qualche giorno. Almeno per il tempo minimo richiesto a terminare l’inserimento come dio comanda. Si vede che così non era scritto. E come spesso mi trovo a pensare quando ho per le mani la creatura febbricitante, meno male che sono in anno sabbatico e, almeno, non ho il problema di aggiungere stress a stress, dovendo giustificare il prolungamento della mia assenza dal lavoro per sopravvenute complicazioni nell’inserimento al nido. Il rovescio della medaglia e’ quello che tutte le madri (o per lo meno quelle con figli-non-super-resistenti a virus & co.) possono facilmente immaginare, senza che io debba aggiungere altro.
Speriamo solo che la prossima settimana sia quella buona.

UN NUOVO INIZIO

Oggi il Patato ha ricominciato l’avventura dell’asilo nido. Per fortuna in un nuovo asilo nido, visto che l’esperienza dello scorso anno scolastico non era purtroppo stata molto positiva, da diversi punti di vista.
Sono una convinta sostenitrice del valore educativo del nido dopo l’anno di vita dei bimbi. Credo che, salvo situazioni particolari, dopo un necessario e inevitabile periodo di adattamento alla nuova realtà, i benefici in termini di crescita e socializzazione dei piccoli siano notevoli. Così per mio figlio era stata coerentemente presa questa decisione, a partire da settembre dell’anno scorso. Sfortunatamente, la struttura che avevamo scelto per lui non aveva offerto nessuna possibilità di inserimento immediato ed eravamo stati costretti a ripiegare su un’altra soluzione, che tenesse conto inevitabilmente delle esigenze, anche logistiche, di due genitori lavoratori, totalmente privi di appoggi familiari nella città di residenza.
Era stata la classica “scelta obbligata”, l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare il Patato in mezzo a una strada, o “spedirlo” dai nonni a tempo indeterminato, senza possibilità per mamma e papà di vederlo durante tutta la settimana. L’altra alternativa sarebbe stata che la mamma rinunciasse al lavoro per un altro anno (cosa che, col senno di poi, sarebbe forse stata la migliore, ma come si dice, col senno di poi siamo tutti bravissimi).
Così, la sorte ci aveva riservato un nido sostanzialmente “non scelto”, che non convinceva specialmente me, che ad una prima impressione “di pancia” non avevo avuto sensazioni granché positive. E infatti.
Nonostante il mio “Patato ruffiano” si fosse abituato senza grandi problemi al nuovo ambiente e ai nuovi ritmi (almeno in apparenza), i mesi successivi si erano dimostrati non proprio facilissimi, tra continue malattie, digiuni più o meno prolungati e relazioni a dir poco freddine con la responsabile di un asilo che, in verità, sembrava somigliare più ad un collegio dell’epoca sovietica che ad un luogo di accoglienza di creature in fasce.
A mente fredda e a distanza di anno confesso di non aver vissuto la situazione molto bene. Facevo fatica a tenere sotto controllo la convinzione istintiva che non fosse il posto adatto a mio figlio e, contemporaneamente, sentendomi spesso in colpa, mi trovavo impossibilitata a valide alternative che non prevedessero scelte radicali e improvvise. E infatti. Come poi e’ finita, con l’anno sabbatico e tutto il resto, ora lo sappiamo.
La ruota della fortuna pare ora aver girato nel verso giusto. Il nido che era stato la nostra prima scelta ha potuto accogliere qualche bimbo rimasto escluso lo scorso anno. E si ricomincia. Un nuovo inserimento, nuove educatrici, nuovi piccoli compagni. Con tanto spazio, tanti giochi intelligenti, non solo comprati dalle grandi case produttrici, ma creati per lasciare spazio all’immaginazione, e non solo di plastica. Un cucina interna che possa tener conto di tutte le esigenze alimentari degli ospiti e, soprattutto, tante persone rilassate e sorridenti, che sembrano sapere bene che il loro principale lavoro e’ far sentire a casa, accolti e protetti, bambini e genitori. Che una sana relazione coi bimbi non si può costruire senza prima aver investito in quella con mamma e papà.
Stamattina siamo rimasti poco più di un’ora, domani sarà un po’ di più. Piano, piano, un nuovo inizio. Sperando che stavolta vada tutto davvero bene. E con la grande speranza che, a ‘sto giro, la creatura si ammali anche un po’ meno!

BUON VIAGGIO :-)

Siamo verso le nove di sera. Il Patato scorrazza nel soggiorno di casa, dando fondo a tutte le ultime energie della giornata. Da poco si e’ esibito in una scatenata baby dance al ritmo di “Baila Morena” di Zucchero, l’ultima scoperta della settimana. Io e suo padre lo guardiamo muoversi, saltare, correre, strapazzare in malo modo i suoi giochi, con qualche fortunoso intervento finalizzato ad evitare il peggio, per i giochi e per la sua incolumità.
Ad un certo punto sale a cavalcioni su una motrice di camion rosso, regalata dai nonni lo scorso Natale e sufficientemente grande da contenerlo seduto. Coi piedi si spinge avanti e indietro sul pavimento, tentando di ripetere parole e frasi delle nostre domande a lui e della nostra conversazione. Ad un certo punto, senza fermarsi dal suo moto perpetuo e dirigendosi verso la porta d’ingresso, dichiara a voce più alta “Ciao! Io vado via. Ciao! Io vado via”.
Mio marito interviene: “Vai via senza dare un bacio a papà?” Il Patato gli si avvicina, scende dal suo potente mezzo, stringe con le braccia il collo del papà e porge la guancia. Non da’ baci, li prende solo.
Poi si gira, risale sul camion e ricomincia il suo giro. “Buon viaggio, amore”. Lacrime.