E TU, CONOSCI I MOMOS?

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(Immagine tratta dal sito http://www.food.ndtv.com)

 

Confesso che uno dei piaceri di viaggiare e di vivere in luoghi diversi dal mio Paese d’origine è costituito per me dalla possibilità di sperimentare e assaggiare cibi provenienti da tradizioni culinarie diverse e lontane anche anni luce dalla propria. A casa ovviamente io preparo cibo italiano, anche perché è quello so fare ;-), ma devo ammettere che, soprattutto negli ultimi anni, mi è davvero venuta una passione per i cibi “diversi”, soprattutto se appartenenti alla categoria “cucina asiatica” per la quale mio marito dice che ho una seria fissa al limite della dipendenza.

Una delle scoperte più interessanti che ho avuto modo di fare qui a Zurigo (e qui sta anche il bello di vivere in una città che, pur non essendo una metropoli, ospita davvero tante culture diverse tra loro!) sono i “Momos”, ovvero i ravioloni ripieni di carne o verdura che costituiscono il piatto tipico tibetano. Ho avuto modo di scoprirli tempo fa, in occasione dello Street Food Festival che si tiene periodicamente con decine di bancarelle che offrono specialità gastronomiche provenienti dai quattro angoli del globo (e a questo proposito, un’altra scoperta stratosferica è stata la cucina afgana, sulla quale non avrei scommesso il becco di un quattrino bucato e che, invece, grazie ad un commerciante che sapeva fare il suo mestiere e accattivarsi pure la curiosità di un seienne, ho avuto la fortuna di provare).

Tornando, invece, ai Momos, pare che questa specialità abbia avuto talmente successo, evidentemente incontrando i gusti della clientela, che dopo qualche tempo è stato aperto  un ristorante che offre praticamente solo questo piatto nel suo menù (nelle tre varianti di carne, vegetariani e vegani). I Momos sono cotti al vapore, così come i ravioli cinesi, ma sono di dimensioni maggiori e vengono serviti con l’accompagnamento di salsa di soia e di una salsa piccantissima (da dosare con estrema cautela!) di peperoncino rosso!

Mi domandavo se anche in Italia questo cibo si sta diffondendo e se, almeno nelle città più grandi, i ravioli tibetani sono diventati famosi, visto che fino al mio trasferimento qui non ne avevo mai sentito parlare. Si tratta, tra l’altro, di un piatto normalmente molto gradito anche ai più piccoli (naturalmente senza salsa piccante), se mio figlio, che notoriamente non è un palato facile, ha sviluppato una vera passione per i Momos di carne, tanto che ogni tanto chiede a gran voce un take away per pranzo, quando le idee brillanti su cosa cucinare in famiglia scarseggiano.

MALATTIA “A META'”

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(Immagine tratta da http://www.meteoweb.eu)

 

Inverno e malanni, si sa, vanno purtroppo spesso a braccetto. Gennaio poi è il classico mese dell’influenza stagionale che, tra i vari problemi di salute del periodo, è quello che più frequentemente richiede un certo periodo di tempo per riprendersi completamente e la necessità di stare a letto nelle giornate di fase acuta della malattia.

Stamattina su un quotidiano locale qui a Zurigo è apparso un articolo secondo cui, a parere di molti datori di lavoro e di alcuni medici, sarebbe assolutamente ragionevole che i dipendenti assenti per l’influenza (anche allo scopo di evitare contagi agli altri colleghi) potessero lavorare da casa, secondo modalità di telelavoro – o home office che dir si voglia – quando le caratteristiche della prestazione lavorativa lo consentano. Diametralmente opposto il parere delle rappresentanze dei lavoratori, secondo cui “se qualcuno è malato, è malato“.

Personalmente ritengo che andrebbe, come sempre, applicato il buonsenso. Quando si è stesi da febbre alta, dolori e altri simpatici sintomi del genere dubito che si sia nelle migliori condizioni, anche dal punto di vista della opportuna lucidità mentale, per lavorare “seriamente”. Diverso è il caso delle giornate di convalescenza, in cui uno sguardo alle e-mail e qualche telefonata in ufficio non possono di certo fare troppi danni, e anzi possono essere un’opportunità per evitare di combattere al rientro con una montagna di arretrati. Il problema è che quando il buon senso deve essere tradotto in regole generali non sempre i risultati sono di particolare successo.

Qui in Svizzera, però, sono in vigore norme inesistenti in Italia che mi hanno stupito positivamente: esiste la possibilità di essere in malattia per una percentuale del proprio orario di lavoro complessivo, mentre in Italia la condizione di malattia comporta sempre una impossibilità totale al lavoro, fino a guarigione avvenuta (compreso quindi l’eventuale periodo di convalescenza).

Ciò significa che in Svizzera la persona, che magari inizia a stare meglio, ma per cui sarebbe ancora prematuro sopportare una intera giornata di lavoro, potrà lavorare ad orario ridotto fino a quando sarà completamente ristabilita. La maestra di mio figlio, ad esempio, qualche tempo fa ha subito un infortunio, in seguito al quale non ha ancora recuperato interamente la capacità lavorativa, ma a parte il primo periodo di assenza totale dalla scuola, ora è presente al 50% del tempo, riuscendo così a garantire la presenza almeno per le attività più importanti, mentre la restante parte viene coperta da supplenti.

In Italia, invece, ciò non è possibile, se non a fronte di “aggiustamenti informali” tra il lavoratore e l’azienda, che spesso rischiano di creare più problemi che vantaggi ad entrambi.