IL LIMITE DEL PENSIERO

Da un po’ di tempo mi capita spesso di riflettere sui danni fatti dal famoso “Cogito ergo sum“, frasetta che chissà perché è entrata negli anni nella testa di quasi tutti coloro che hanno un’istruzione superiore di qualche tipo, e che accompagna come un mantra diverse fasi della vita, quasi a pari merito con l’altro best-seller “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce“. Spiace dire che probabilmente ai due eminenti signori di cui sopra era sfuggito qualcosa di un tantino essenziale sulla natura umana.

Come se fosse possibile avere (davvero) cervello senza cuore, e naturalmente viceversa, ed essere esseri umani completi ed assennati. E come se fosse vero che l’essenza dell’uomo fosse contenuta in quel guazzabuglio infernale che oggi chiamiamo comunemente “mente”, con le perversioni (nostre ed altrui naturalmente) a cui il quotidiano ci ha insegnato ad assistere come fosse cosa inevitabile.

Discutevo poco tempo fa con una persona di un’altra generazione, in un contesto complicato da una situazione emotiva difficile, ulteriormente aggravata dai legami familiari, in un dialogo che poteva suonare più o meno così:

“Perché io penso sempre, sono abituata a pensare a tutto quello che succede, a tutti i problemi che ci sono!”

Beh, forse la soluzione sarebbe proprio smettere per un po’ di pensare

Eh?!? E perché mai?? Si sa da sempre che le persone intelligenti pensano per risolvere i problemi!

Le persone intelligenti DEVONO pensare. Se io non penso con la mente, non posso definirmi una persona intelligente e la mia vita sarà un disastro. Assunto che, probabilmente, ha comportato nei secoli danni incalcolabili al genere umano, che ha finito per scambiare il parto dei propri deliri mentali con la realtà, o ancora peggio, con la VERITA’.

Temo che la verità stia però altrove, molto altrove. Se non ne siete convinti provate a dedicare qualche minuto alla lettura di questo testo, che molto meglio delle mie capacità narrative espone un altro punto di vista.

Dopo, provate a osservare ciò che sentite. Osservate e sentite, non pensate.


(Echkart Tolle, “Un nuovo mondo”)

1939

Hanno la stessa età, entrambe nate nel 1939, nello stesso mese, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
Le Conosco da tutta la vita e posso giurare, senza timore di essere smentita da nessuno, che entrambe hanno segnato in meglio i miei quasi 45 anni.
Non ho mai avuto timore di potermi in qualche modo dimenticare di loro, neppure se, per le strade della vita, potevo vedere entrambe ormai abbastanza di rado e per fugaci momenti.
Ho bellissimi ricordi di bambina (e anche meno belli, che ora mi sembrano belli lo stesso) in due mondi paralleli, apparentemente inconciliabili e lontanissimi, tanto che mi appare straniante che appartengano alla stessa vita.

Una sta organizzando in questi giorni la sua festa di compleanno, con amici e parenti in arrivo da tutta Italia. Nonché un successivo viaggio in Iran “perché non posso mica stare qui chiusa dentro, anche se ho 80 anni e non parlo inglese”.

L’altra se n’è andata pochi giorni fa, in silenzio come è vissuta, prima che potessi mandarle il solito mazzo di fiori per il suo compleanno il 1° di marzo, ad un soffio dai suoi 80 anni. La ricordo sempre accanto a me, nel bene e nel male, spesso senza dire una parola, con una semplice e rassicurante presenza, quella della terra che è casa e che, credo, abbia molto contribuito a salvarmi la vita.

Ciò che ora è sicuro è che è un onore ed un privilegio sapere di avere incontrato donne così.

GABBIANI

Nelle settimane “buone” il venerdì è il mio giorno di pausa. Non perché non abbia nulla da fare, ma perché provo, nei limiti del possibile e delle contingenze, a trovare un piccolo spazio per fare non solo quello che devo, ma anche quello di cui ho bisogno. Può essere stare un’ora a cucinare, a leggere qualcosa, o uscire a fare un giro (preferibilmente uscire a fare un giro e preferibilmente senza meta!). A volte non ho la possibilità di camminare lasciandomi guidare dal caso, perché ho necessità che mi portano ad una meta precisa, ma cerco comunque di sfruttare la cosa a mio vantaggio.

Era uscito il sole, in modo quasi inatteso e certamente provvisorio, il conseguente imperativo è stato: “fuori!” Mi sono seduta in riva al fiume, col sole che prometteva di più dei pochi gradi previsti; non ero l’unica, in orario di pausa pranzo. Mangiare al sole seduti sulla panchina è uno degli sport nazionali. C’erano le papere e i gabbiani. Anche non avessi mai visto Hitchcock, qualche dubbio mi sarebbe comunque venuto: ma quanto sono aggressivi? In questa stagione spesso anche lontani dall’acqua, alla famelica ricerca di cibo che si contendono ferocemente l’un con l’altro e con le suddette paperelle, che subiscono inevitabilmente la supremazia di coloro che attaccano dal cielo.

Sono rimasta lì, non so per quanto, a scaldarmi al sole di febbraio che inizia ad avere un suo senso e a ricordare che, alla fine, la primavera può non essere neppure così lontana. Mi sono guardata intorno, tra chi pranzava, chi chiacchierava con qualcuno, chi portava il figlio a vedere il fiume e gli uccelli, restando semplicemente seduto ad osservarne le evoluzione e a sorridere per i voli radenti dei germani reali. Per diversi minuti non ho visto nessuno parlare al telefono o guardare lo smartphone. Forse c’è ancora speranza.