LASSÙ


Le esperienze non sono ripetibili,
è noto. Nessuno si bagna due volte nello stesso fiume. Capita, però, che un bizzarro imperativo categorico imponga di tornare in qualche luogo, pur sapendo che, mai e poi mai, potrai rivivere ciò che già hai vissuto. Non fosse altro per il fatto che tu sei diventata altro da te, che una coppia è diventata una famiglia, nel frattempo. Che hai dovuto aspettare cinque (lunghi) anni e che l’unica cosa immutata e immutabile è il luogo medesimo. Ciononostante hai deciso che l’ascesa s’ha da fare, nonostante la calura africana, il sole a picco, il Marito perplesso e il quasi-quattrenne al seguito, sul quale nutri più di un dubbio che regga l’impresa. Come spesso accade, invece, Lui è quello messo meglio di tutti, fa completa salita e discesa senza battere ciglio, parlando e cantando in bilingue lungo tutto il percorso, senza un secondo di tregua, mentre voi beneficiate di multi-visioni di tutti i santi del paradiso giunti sul luogo per farvi capire che non avete più l’età per certe cose, o per lo meno per farle in un pomeriggio di luglio (tardo pomeriggio, ammettiamolo, ma sempre con quei 35 o giù di lì), con la fatica aggiuntiva di badare a che la creatura non si butti dai bastioni mentre vi distraete quella frazione di secondo. Doveva essere un pellegrinaggio, in effetti, ché le illuminazioni meritano di essere celebrate, e alcune ancor più di altre. Così è stato, in verità, pur se nulla è ripetibile e le illuminazioni ben meno di altre esperienze. Resta il fatto che qualcosa è compiuto, un invisibile cerchio si è chiuso, nel luogo più vicino al paradiso che io conosca. E lassù tutto è immobile, eterno, immutabile. Per qualche secondo anche i 35 non si sentono più. E tu solamente vivi.

PICCOLI VIAGGIATORI CRESCONO

Mio figlio ha dimostrato una preoccupante passione per il Souvlaki, oltre che per il gelato, naturalmente, ma quest’ultimo aspetto non rappresentava una novità.
Abbiamo avuto prova che, superati i tre anni, le complessità del viaggiare con un bambino diminuiscono tendenzialmente di parecchio. Archiviati pannolini e menù speciali per la prima infanzia, nonché i pluri-sonnellini nel corso della giornata, normalmente non sono necessari grandissimi accorgimenti per una vacanza tutto sommato tranquilla.
Mio figlio pare avere doti di grande viaggiatore, raramente si lamenta nel corso degli spostamenti, con qualsiasi mezzo siano effettuati. Accetta con entusiasmo auto, treni, aerei, barche, e tutto per lui sembra avere il gusto della novità e della scoperta. Più ti muovi tu, più Lui rimane in pace col mondo. In occasione di lunghe giornate in spiaggia è consigliabile un riposino post-pranzo, giusto per evitare il crollo nervoso all’ora del tramonto, e soprattutto in occasione di giornate con esperienze particolarmente stimolanti, lo sclero da ipereccitazione è ancora dietro l’angolo, ma con qualche piccolo accorgimento è persino possibile arrivare a sera indenni da grandi incidenti di percorso (leggere capricci isterici e pianti inconsolabili per futili motivi).

Non vivendo più nel costante coprifuoco da orario pasti (ore 12 e 19 tassative), anche i ritmi familiari riescono ad essere più rilassati e vacanzieri nel verso senso del termine.
Siamo finalmente riusciti ad evitare l’evento criminale dell’abbandono della spiaggia alle sei di sera, momento a partire del qualche il mare offre il meglio di sé da ogni punto di vista e in cui la prospettiva di andarsene, pur se per una doccia ristoratrice e un giro al buffet, rischia di apparire intenzione insensata e affatto prioritaria.
Siamo addirittura riusciti ad essere gli ultimi ad abbandonare la spiaggia, di fronte allo spazio infinito della luce calda del tramonto, con la brezza incessante e il sorgere della luna da dietro la collina. Cosa che mi ha riempito di infinito orgoglio.

SPECCHI

Per un po’ ho avuto bisogno di una pausa dalla routine e dalle incombenze del vivere di tutti i giorni, anche da quelle a cui non rinuncerei mai. Un po’ ho faticato, a tratti, ad entrare in “clima vacanza”, a sgomberare la testa da pensieri e qualche paranoia di troppo; strano per me, soprattutto essendo Lì, dove di solito impiego qualche frazione di secondo a lasciarmi tutto il resto alle spalle.

Sarà la vecchiaia, e la cosa non mi piace.
Sarà che molti pensieri riguardavano mio figlio, la sua vita e il suo futuro, e la cosa mi piace ancora meno.
Credo che le preoccupazioni genitoriali, materne ancor di più, rischino di diventare una pesante zavorra, una condanna addirittura, nel peggiore dei casi, nella vita di queste creature. Che avrebbero tutto il diritto di crescere libere da giudizi, pregiudizi e paure, pessimismi e incubi notturni, anche quando animati dalle migliori intenzioni. Anche e soprattutto per un motivo estremamente pragmatico, in assoluto swiss-style: non servono a nulla, se non a crear danno e quello strano fenomeno di profezia che si auto avvera.
Eppure ogni tanto ci cado, con mio sommo disappunto e auto-indignazione. E dove non arriva la miUmaa consapevolezza quella del Marito non manca di manifestarsi puntualmente.
E’ che, da un po’ di tempo, vedo troppi specchi intorno a me, che riflettono qualcosa che non mi piace e ancor meno vorrei ricordare.Una creaturina apparentemente indifesa, minuscola per i suoi anni, fragile, ma accompagnata all’opposto da una volontà sproporzionata, tenace fino alla morte, feroce come una belva della savana. Uno scricciolo con la testa di un leone.

Una buona parte di mie le fragilità, meno la testardaggine ad oltranza e quello spirito contestatore ad ogni costo che non mi appartiene se non per reazione ad eventi avversi, tra l’altro manifestatesi in età ampiamente più matura. Spirito ribelle e solitario, non fosse per un intimo e immenso bisogno di compagnia. E molto di quanto vedo nel suo fisico, una certa tendenza a certi malanni, quelli che son stati miei da una vita per lo più, una pelle quasi trasparente e ultra sensibile a qualsiasi insulto esterno, una struttura ossea sottile che spesso pare contrastare con il moto perpetuo della sua vita da sveglio.
Son cose con cui dovrei fare conti che non ho affatto voglia di fare, ma si sa che, per lo più, funziona così.

Ero in vacanza, però, e laggiù c’era l’orizzonte. Ero lì, e questo tutto sommato contava ancora qualcosa.

PROLOGO

Volevo parlare di mare, quello vero, davvero.
Del cielo più blu dell’universo e del bianco del luogo che più amo al mondo.
Avevo intenzione di farlo, speravo di farlo dal vivo, se un wi-fi inesistente mi avesse sostenuto.
Le cronache dalle vacanze, invece, non potranno essere che in grande differita.

TIME OUT

Odio fare le valigie. In modo direttamente proporzionale a quanto amo viaggiare. E questo, a volte, può essere un piccolo problema.

L’altro piccolo problema è che, ormai, sono completamente incapace anche solo di immaginare un bagaglio composto solo da costumi, infradito, shorts e T-shirt. Ma, anche in tal caso, l’impasse è agevolmente superabile, visto che qui è pieno autunno, non si vede un raggio di sole da giorni, e le temperature medie diurne si aggirano sui 13 gradi.

D’altra parte è stata una settimana di totale reclusione domestica, visto che mio figlio ha ben pensato di recuperare, in pochi giorni, tutti i malanni che non si era preso nei precedenti mesi invernali (d’altronde il clima era decisamente meglio che ora ;-)), per cui in sette giorni abbiamo avuto l’onore di ben tre visite dal medico.

Confesso di essere leggermente provata, come si usa dire. Mi serve davvero una vacanza, con un SOLE GRANDE COSI’.

Time out.

 

 

(DELIRIO) AMARCORD

Premessa: doveva essere un’ordinaria domenica d’estate, allietata, quasi inaspettatamente, da sole e temperature degne di luglio e con una festa di compleanno a cui partecipare. Non fosse che la creatura si svegli in condizioni di salute non esattamente smaglianti, che la situazione tenda a peggiorare nel corso della giornata e che i programmi di vita sociale necessitino all’improvviso di una decisa revisione.

Esito: pomeriggio domenicale con figlio febbricitante e il resto della famiglia davanti alla tv per la (lunga e appassionante) finale maschile di Wimbledon. Il resto è amarcord.

Non ho neppure più idea di quanti anni fossero passati dalla visione di una finale di Wimbledon. Sarà che, ormai da secoli, per la tv italiana “normale” questo genere di eventi non è neppure degno di considerazione e che, anche volendo, l’impresa sarebbe stata tutto sommato ardua. Sarà che sono passati millenni dall’epoca mia fervente militanza tennistica che mi spingeva a passare caldi pomeriggi estivi incollata alla tv per la dannazione di mia madre, che, in ogni modo e del tutto inutilmente, cercava di sganciarmi dalla poltrona per agevolare attività ricreative più idonee alla stagione. Allora, forse, le estati erano estati e non ancora quello strano frullato delle quattro stagioni che capita di recente. Ho passato ore, nella mia adolescenza, oscillanti tra esaltazione e disperazione, immobile davanti allo schermo, alla mercé del campione del cuore sugli allori degli altari  o nella polvere della sconfitta.

Di tutto ciò, naturalmente, mi ero pressoché completamente dimenticata. Fino a ieri pomeriggio. Quando, complici i fatti in premessa, mi sono ritrovata all’improvviso catapultata sul Centrale di Wimbledon, per la finale del torneo più affascinante del mondo, a guardare due giocatori di cui uno conosciuto in pratica solo di fama, l’altro per me un perfetto estraneo. Eppure è bastato un momento. Per ritornare indietro di più di vent’anni – quasi trenta – alle atmosfere magiche di un luogo che avrei pagato oro pur di poter visitare (cosa che, tra parentesi, avrei fatto qualche tempo più tardi, senza però avere davvero il privilegio di assistere al grande evento della finale), alle schiere di ragazzini raccattapalle (gran bel lavoro, mi sembrava all’epoca), alle signore giudici di linea coi gonnelloni sotto al polpaccio, alle schiere di VIP che occupavano le tribune e che diventavano oggetto di cronaca quasi quanto quella dell’evento sportivo in sé. Alle signore coi cappellini, ai gentiluomini in giacca e cravatta (sì, per vedere una partita di tennis), al profumo immaginato delle fragole con panna, ai gadget griffati “The Championships”, che il nome completo mica è necessario. Wimbledon è Wimbledon, che piaccia o no.

Mi ci sono rituffata, senza esitazioni, nonostante un marito accanto a me e un figlio con la febbre qualche metro più in là. Ho assaporato quei momenti lontani fino a quando la dura realtà ha presentato il conto. Ho intravisto due signori in tribuna, inquadrati spesso, che mi sembrava di conoscere. Due vecchi campioni, non si può ormai che dire così, nell’attuale veste di allenatori dei due in campo. Flash. Come può essere crudele la vita. Nella mia testa c’erano due ragazzi, che non esistono (ovviamente) più. Ho preso l’iPhone e l’onnisciente Wikipedia mi ha aggiornato in pochi secondi sui decenni di vita che ci separavano rispetto a quando li avevo lasciati. Sono andata a cercare informazioni sui miei idoli, su cosa hanno fatto negli anni. Ho scoperto che sono ancora sposati con la stessa moglie di allora (l’avevo sempre sostenuto che fossero ragazzi seri e affidabili ;-)), hanno figli, impegni importanti nel mondo del loro sport. Sembra non abbiamo sprecato il loro talento, anche “dopo”. Che il signor Stefan Edberg da qualche mese sia coach di Roger Federer e che tra i due mi pare esista una certa affinità di stile e aplomb. Che il signor Stefan Edberg porti i suoi anni infinitamente meglio del suo rivale di una vita, seduto in tribuna pochi metri più in là, in veste di allenatore ufficiale dell’altro giocatore: bravo, per carità, ma la classe è un’altra cosa. Che, anche a distanza di quei venticinque anni, vedere che Boris Becker sia invecchiato come il classico tedesco bevitore di birra mi dia una certa soddisfazione. Perché certe cose non cambiano davvero mai. Neppure quando tu sei ormai diventata un’altra persona.

 

IL MIO PAPA’

Mio figlio si è riappropriato dei “suoi” spazi. Immediatamente e senza esitazioni.

Pelché hai spostato questo mamma?!

Perché, almeno per pochi giorni, ho tentato di dare un aspetto minimamente decente a un soggiorno ridotto peggio di un campo di battaglia. Niente gli sfugge, posizioni di giochi mossi di qualche centimetro e subito individuati con evidente disappunto. Il mio libro istantaneamente sfrattato dal tavolino (che, tra parentesi, a quello avrebbe dovuto servire, prima di essere irrimediabilmente infestato di mattoncini lego e amenità varie).

A Parigi abbiamo gli comprato una scatolina di metallo, tutta colorata, perché potesse utilizzarla per riporre i suoi piccoli giochi, le matite colorate, tutto quanto tende a sparpagliarsi ovunque. Quando ha aperto il pacchetto il papà non c’era, per un paio di giorni è stato al lavoro fino a tardi la sera. Ieri mentre cenavamo Lui all’improvviso dice:

Dopo questi li metto nella scatolina che il mio papà mi ha poltato da Paligi!

Guarda che la scatolina te l’hanno presa mamma e papà insieme, a Parigi”

No! Il mio papà!

E pazienza se la benedetta scatolina, in realtà, l’abbia di fatto scelta e voluta proprio la mamma. Son soddisfazioni.