Non dirò nulla di nuovo. Da un po’ di tempo a questa parte ho fatto una scelta consapevole e abbastanza precisa, quella di scrivere qui, come su Facebook & co, di cose possibilmente “piacevoli”, che alleggeriscano, incuriosiscano, facciano arrivare un piccolo sorriso, magari un moto di sorpresa o meraviglia.
Ogni tanto anche di qualcosa che faccia riflettere, incazzare se del caso, con l’obiettivo però di andare oltre, trovare la spinta per fare o migliorare.
Molto probabilmente a nessuno frega assolutamente niente della prima categoria: più che comprensibile del resto, l’effetto Pollyanna – che ho sempre detestato col cuore – è davvero cosa di un attimo. In più, non pubblico cose eclatanti che possano in qualche modo far nascere invidia o emulazione (diciamocelo, la mia quotidianità è sicuramente estremamente noiosa, aggravata dal fatto di vivere in un paese noiosissimo agli occhi dei più).
Gli spunti di riflessione, a meno di avere la precisa volontà di far nascere flame (che tendenzialmente disprezzo), non sono affatto accattivanti, costano spesso fatica in chi legge, che può tra l’altro non essere per nulla interessato a quelli che per me sono temi di valore. Tendenzialmente, poi, sollevo più interrogativi che soluzioni, più domande che risposte. Tragico, in momenti di vittoria assoluta di tutti i possibili estremismi.
Perché ne scrivo? Perché sono in una mia fase di riflessione su parecchie cose. Ho quasi sempre l’impressione che i social siano ormai un buco nero, salvo però alcuni spunti e info preziose che, obiettivamente, sarebbe quasi impossibile raccogliere altrove.
Alla fine capita sempre che io rimandi la chiusura, non fosse altro per vedere le immagini dei gattini che non potrò mai adottare, perché il marito è allergico e gli viene l’asma, ma che mi cambiano in meglio la giornata.