BILANCI e L’ANNO CHE VERRÀ

Forse è inevitabile arrivare agli ultimi giorni, alle ultime ore, di un anno e trovarsi con la testa che frulla, mentre cerca in qualche modo di chiudere un bilancio del tempo passato, in attesa dell’arrivo all’ineludibile traguardo. 
This is the end. Un anno è andato, finito, archiviato.
E domani è un altro giorno, si ricomincia.
Inevitabile, nonostante io non sia quella delle grandi celebrazioni di capodanno, anzi, al contrario, sia quella che, neppure tanto raramente, decide di andarsene a dormire prima della mezzanotte e attendere il futuro brindando nel mondo dei sogni. E accolga, con un neppure così celato sollievo, le fine di tutte quelle celebrazioni scomposte il cui significato continua a non comprendere appieno.
Però il 2012 non è stato un anno molto “normale”, da diversi punti di vista.
Mica solo per la profezia Maya e le annesse previsioni astronomico-astrologiche.
Non lo è stato dal punto di vista familiare, personale e lavorativo.
È stato un anno iniziato con un pesante lutto familiare, una situazione lavorativa e di equilibrio psicofisico difficili, che hanno richiesto interventi e tempi di recupero sicuramente importanti e non usuali. 
È stato l’anno del mio anno sabbatico. 
Dell’apertura del mio blog e della riscoperta di una passione sopita da secoli.
È stato l’anno in cui il Patato ha iniziato a parlare, a dormire (ehm, beh, più o meno, diciamo. Sicuramente un po’ di più di prima :-)), a mangiare senza far dannare sua madre ad ogni pasto. Ad andare all’asilo anche per qualche settimana di fila, senza ammalarsi ogni tre giorni.
È stato l’anno in cui mi hanno chiesto di riprendere in anticipo il lavoro, con uno strano esperimento di telelavoro part-time, che è appena iniziato e non so proprio come andrà.
Ho scritto parecchie cose. Forse già significative e importanti così. Ma ancora superficiali.
Ho scritto di cose fatte e accadute. Non di come mi sento io e di come mi sentivo esattamente un anno fa.
Probabilmente non sarebbe neppure opportuno, se non in una sintesi estrema, nell’essenza assoluta di un sentire che è drammaticamente cambiato.
Perché io sono cambiata. 
Non voglio dare un giudizio di valore. Se in meglio o in peggio, agli occhi del mondo, sarà qualcun altro a stabilirlo.
In queste righe l’unica valida unità di misura è la mia.
E, nella mia, sempre più fortemente so chi sono, cosa voglio e cosa non. Comprendo i limiti di ciò che per il mio mondo è accettabile o meno.
Non che la cosa renda tutto più semplice, anzi. Comporta una negoziazione continua, millimetrica e a tratti estenuante tra ‘il dentro” e “il fuori”. Tra me e il mondo. Dove il mondo, magari, è anche mio marito, o mio figlio. Non necessariamente il nemico.
Ma c’è la consapevolezza di aver fatto il possibile, di aver visto e di vedere, dopo mesi di tenebra profonda, finalmente la luce.
Buon anno, ovunque ci porterà.

LA MICIA E IL VAGABONDO

Sono stati giorni abbastanza dinamici questi delle festività natalizie.
Abbiamo fatto il giro dei nonni, con qualche centinaio di chilometri nel mezzo.
Oggi pomeriggio il Patato è rimasto a casa dei miei genitori, io e il consorte siamo rientrati alla base, per poi prepararci a ripartire domani all’alba per un weekend dedicato a cose poco indicate a un duenne scalmanato. 
Cose che implicano qualche riflessione a due, un minimo di esplorazione in relativa libertà e un viaggio, ahimè, verso nord.
In quest’ultima settimana credo di aver imparato diverse cose su mio figlio e di aver avuto qualche ulteriore conferma.
Lui ha, senza dubbio, acquisito il concetto, prima pressoché sconosciuto, di “regalo”, anche se credo ancora nutra qualche perplessità sul quello strano personaggio con la barba bianca e vestito di rosso, nonché sul collegato meccanismo per cui dicono che solo a Natale porti doni ai bambini (buoni ;-))
Ha scoperto (e noi con lui) di saper incredibilmente suonare l’armonica a bocca, “regalo” non programmato e miracolosamente scovato tra le cianfrusaglie giovanili della cameretta di papà.
Ha definitivamente capito che i gatti gli piacciono alla follia. La micia della nonna, ormai con una sua certa età, ha imparato a sue spese cosa possa significare la convivenza forzata con un nanetto pestifero come mio figlio.
Il quale, una volta capito quanto è bella e morbida, non si lasciava sfuggire alcuna occasione per affondare le manine in affettuose carezze.
E via, per tutto il giorno con incessanti richiami della foresta “Miciaaaaa!!!! Dove sei miciaaaaa!? Dove sei????”
Onestamente la povera bestia era un po’ stressata ed ha accusato qualche contraccolpo. Eppure.
Ci sono stati momenti, quasi incredibili, per chi in dieci anni non l’aveva mai vista farsi toccare o accarezzare da sconosciuti, lunatica e scostante come solo certe gatte sanno essere, sdraiarsi lì, vicino al bambino e alla nonna, farsi fare le coccole, i grattini sulla testa, rispondere con le fusa, avvicinare il muso alla faccina del Patato che rideva come un matto quando i baffi gli facevano il solletico sul naso.
È proprio vero che animali e bambini riescono a comunicare su canali solo loro, da cui il resto del mondo è (fantasticamente) escluso.
Ha definitivamente provato a se stesso di avere davanti a sè un grande futuro musicale. Ormai da settimane si esercita quotidianamente nella performance professionale live di “Io, vagabondo”, arrivando a sfiorare la perfezione. Si è accaparrato addirittura un vero microfono (fortunatamente non più funzionante) che usa regolarmente per le sue prove davanti alla famiglia riunita in estatica ammirazione.
E così tiriamo le somme. Sospettavo, da tempo. Praticamente da prima che nascesse, nutrito dalle letture anarchiche della madre.
Ottima propensione ai viaggi, spiccate doti musicali. Un’armonica e un pezzo cult anni ’70. Il futuro da artista di strada è garantito
Davvero, io vagabondo.

BUON NATALE, CON LA FORZA DELLA MONTAGNA

Pochi giorni prima del Natale di qualche anno fa, tre per l’esattezza, inviavo agli amici una email di auguri, citando un pensiero che avevo tempo prima casualmente scovato in rete e che, pur non essendo direttamente riferito alle feste di quel periodo, sentivo particolarmente adatto.
Non sapevo ancora che quelle frasi mi avrebbero accompagnata, tenendomi per mano con una stretta affettuosa, per i mesi successivi.
Mesi importanti, impegnativi, a tratti difficili, ma sempre accompagnati da una sottile forza e una tenace speranza.
Ancora oggi, in alcune circostanze, nei momenti “così”, nel bene e nel male, è lì, con me, sulla prima pagina della mia agenda tascabile.
E, soprattutto, lì dove conta. Nella mia testa, nel mio cuore, nella mia pancia.
A tutti noi grandissimi auguri!

Sedetevi con la forza della montagna
l’atteggiamento del cielo
il flusso di un fiume
il respiro del vento
i colori della natura
l’esperienza dell’arcobaleno.
E restate così, semplicemente,
e siatene felici,
ma senza possedere nulla.
Sedetevi come il cielo contiene il sole:
spazioso, senza appoggiarvisi”

(Sogyal Rimpoche)

#UFFICIOINCASA & ALTRE AMENITÀ

Sono trascorse solo tre settimane dall’avvio ufficiale di #ufficioincasa ed eccoci qui, già con la pausa natalizia alle porte.
Mi nasce spontanea qualche piccola riflessione, nonostante il fatto che pochi giorni di lavoro effettivo siano assolutamente insufficienti per tentare qualsiasi bilancio attendibile. 
L’unica cosa su cui mi sono seriamente trovata a riflettere in questi giorni è che, come già accaduto in altre circostanze, qualsiasi tentativo di conciliazione famiglia-lavoro, anche il più ardito, riesce ragionevolmente a funzionare quando le cose vanno secondo copione, senza imprevisti o incidenti di percorso.
Considerando il “mio” attuale modello di lavoro da casa part-time, con marito in ufficio super-full time e mancanza di supporti familiari a portata di mano (i nonni abitano chilometri far away), il tutto può filare liscio a patto che i membri della famiglia restino in buona salute e non debbano far fronte ad improvvise contingenze senza adeguati termini di preavviso, preparazione e organizzazione.
Mio figlio, ad esempio, è malato, e conseguentemente a casa dall’asilo, ormai da una decina di giorni. La buona stella di natale ha voluto che, casualmente, avessimo programmato con mia suocera la sua settimana di presenza mensile proprio in questo periodo e di conseguenza, per una volta, le cose si sono incastrate a pennello.
Va bene, lei ha dovuto prolungare la sua permanenza di un paio di giorni rispetto alle intenzioni, io stamattina ho perso la mia lezione di yoga, ma ce la siamo cavata senza grossi ostacoli.
Diversamente, temo che le mie giornate lavorative da casa sarebbero state un incubo non riferibile. Meglio, credo proprio che non ci sarebbe stata alcuna giornata lavorativa degna di tal nome.
Io dichiaro a priori di invidiare incommensurabilmente quelle madri che dicono di riuscire a lavorare tranquillamente col pargolo ai propri piedi, mentre quello continua serenamente la sua giornata, giocando, disegnando e chi più ne ha.
Io con il Patato in casa non riesco neppure a portare avanti l’indispensabile per la sopravvivenza. Non riesco a farmi una doccia, a preparare un pasto dignitoso, a leggere un giornale, insomma a fare QUALSIASI cosa che non contempli il suo coinvolgimento attivo nell’attività medesima.
Figurarsi lavorare. Con il portatile sul tavolo del soggiorno, la chiavetta USB inserita e quella fantastica lucina verde che sembra sussurrare: “Patato, vieni qui, guarda come sono interessante”! Con quel favoloso oggetto a forma di topo attaccato da un lato, tutto grigio e con la rotellina che emette quell’invitante rumore quando la si tocca col dito. Con la meravigliosa tastiera che fa “tic, tic” appena la sfiori, per non parlare dello schermo, così luminoso e con quella incredibile immagine del mare. “Mamma, e questo cos’è? Questo cos’è? Questo cos’è?eeeeeeehhhhhhhhh!!!!
Già è andata un po’ così, ma, con la presenza della nonna che poteva intervenire strategicamente, ci siamo salvati la pelle.
Motivo per il quale, ad di là di condividere la mia personale esperienza, mi piacerebbe davvero sapere se ci sono persone (donne/madri nello specifico) che davvero lavorano stabilmente da casa coi figli al loro fianco. 
In tal caso dovrò chiedere gentilmente che mi facciano un training accelerato di tecniche e trucchi, perché, vista la stagione in cui siamo, mica posso pensare che, prima della prossima estate, non mi recapiterà il delirio #ufficioincasa e figlio malato!

BRONCHITE

Ora, sono obiettivamente molto consapevole che una bronchite, a metà dicembre, in un bimbo di due anni che frequenta l’asilo nido e che respira ogni giorno quest’aria appestata, non sia poi una gran notizia.
Il fatto grave è che io non me ne fossi neppure accorta. 
E vivrei ancora nella mia beata ignoranza se stanotte, per caso (caso?!) mio figlio non si fosse svegliato urlante, lamentandosi per il male all’orecchio.
E se da questo evento non fosse seguita la telefonata mattutina alla pediatra, la successiva visita e la diagnosi. E una bella prescrizione di una settimana di antibiotico e aerosol vari. E l’assenza alla festa di Natale dell’asilo.
Io, non fosse stato per il mal d’orecchio, stamattina lo avrei serenamente rimandato al nido. Secondo me stava meglio, e tossiva pochissimo.
D’accordo, sono stata fuori casa praticamente tutto il weekend e non l’ho potuto osservare gran che. Ma anche di notte la tosse era diminuita parecchio rispetto alla scorsa settimana, e il Patato era scatenato come sempre, mediamente affamato, mediamente capriccioso.
La pediatra ha sospettato la bronchite dopo averlo sentito emettere mezzo colpo di tosse, mentre ancora eravamo sulla soglia dello studio. Lei è un medico, io no, con tutta evidenza.
Ma io sono la madre. E si supporrebbe che mi rendessi conto se mio figlio è malato.

NEVE

La mia settimana lavorativa è finita giovedì. Per fortuna, visto che, anche grazie alle notti insonni da tosse e raffreddore del Patato, ero già parecchio stanca.
Continuo a non spiegarmene realmente il motivo, visto che tre mattine lavorative sono davvero ben lontane dal pieno regime a cui (prima) ero abituata. Ed è anche vero che l’ultima giornata non l’ho lavorata da casa, sono andata in ufficio, ma, con ogni evidenza, quelle poche ore mi costano uno sforzo ben più grande e intenso di quello che potrei pensare.
Ieri mi sono svegliata con la neve, o meglio, mi hanno detto che c’era la neve e, data la presenza di mia suocera che accudiva la belva malaticcia, sono rimasta a letto un pochino più a lungo del solito. 
Da sola, sotto il piumone a prova di artico, ad ascoltare il silenzio.
Quando mi sono alzata ho visto finalmente il bianco, ben più intenso e ricco di quanto avrei immaginato.
Ho sempre pensato che la neve fosse un regalo, pur nei momenti in cui le maledizioni da disagi e disservizi non si contavano, quando il solito e banale percorso casa-lavoro diventava un’avventura, quando i programmi per la giornata o la serata rischiavano di fallire miseramente, sostituiti da ben più pigri propositi da divano e Tv.
La neve spesso costringe a staccare dalla routine, a rivedere la lista delle priorità che incombono, a ricordarci che non siamo onnipotenti e che sempre c’è e ci sarà qualcosa su cui non abbiamo controllo e potere. 
Che, magari, quella cosa così urgente che dovevamo sbrigare proprio oggi, alla fine così urgente non è. Che, in fondo, quella cosa lì possiamo anche rimandarla a domani, senza che il mondo finisca.
Sono poi uscita di casa, a piedi, con gli scarponi da montagna, per andare alla mia lezione di yoga del venerdì.
Passo dopo passo, con qualche fatica e grande attenzione a non scivolare, mentre pensavo che a volte la neve può essere come lo yoga, o lo yoga come la neve, quando ci aiutano, per qualche ora o qualche giorno, a “staccare” la spina dal quotidiano, a rivedere i nostri schemi inconsapevoli e le nostre abitudini, “ripulendoci” un po’ da qualche tossina accumulata nel tempo.
Stamattina lo yoga diventava, invece, la priorità del mio weekend mensile e gli scarponi e la buona volontà non sarebbero stati sufficienti a farmi percorrere gli otto chilometri che mi separano dalla meta. 
Stavolta sono servite le gomme invernali, ma ho avuto la fortuna, in entrambe le direzioni di marcia, di evitare il delirio da traffico in sabato pre-natalizio.
Il meteo inclemente ha convinto molti a stare a casa al caldo. E io ho avuto il mio regalo.

LA PROFEZIA

12-12-12. Non capitava da parecchio e dicono occorrerà attendere un altro bel po’ di tempo affinché un simile evento si riproponga nel calendario.
Capita, poi, che la coincidenza si manifesti proprio nel ben mezzo delle discussioni pre-profezia Maya, rispetto alla quale gli esperti assicurano che, in verità, la data del famigerato 21-12-12 nulla significherebbe senza aver, prima, considerato l’inizio della nuova era, cioè proprio il 12-12-12.
Ora, come già dichiarato in altre circostanze, il mondo del paranormale, soprannaturale, esoterico è un qualcosa di considerevolmente lontano dal mio modo di essere. 
Premetto, quindi, che dall’epoca del mio viaggio di nozze in Messico, datato 2006, in poi ho sempre ascoltato con la giusta dose di ironia le varie interpretazioni circa la prossima “fine del mondo”.
È passato qualche anno e sostanzialmente non ho cambiato idea.

Però, c’è un però.
Sorvolando sul dettaglio, assai poco significativo per l’universo cosmico, che la mia nuova epoca è cominciata con un figlio con la tracheite, una notte in bianco ecc, ecc, e che quindi non mi sembra che oggi sia cambiato molto rispetto a “prima”, vorrei confessare due o tre cosette.
Che, in alcuni momenti di profondo sconforto, spesso concomitanti o immediatamente successivi alle suddette notti insonni, ho davvero sperato che i Maya (o, meglio, la più catastrofista interpretazione delle loro teorie) avessero davvero ragione. Così, d’un tratto, tutti i casini, le menate e compagnia bella sarebbero diventati dettagli irrilevanti. 
E un bel sonno eterno, senza rotture di scatole, non me lo avrebbe tolto nessuno.
Che, in alcuni momenti di profondo e intimo ottimismo, ho sinceramente creduto che, in un futuro non troppo lontano, l’essere umano sarebbe stato veramente posto di fronte ad un bivio esistenziale che lo avrebbe costretto a scegliere tra due vie, diametralmente e drammaticamente opposte. Se continuare la sua strada verso la rovina, perseverando nelle buone abitudini degli ultimi millenni di storia, oppure fermarsi un momento, riflettere collegando i due neuroni sopravvissuti, e decidersi finalmente ad un drastico cambiamento di rotta.
Che, a mio umile e modesto parere, nel primo caso la fine del mondo arriverebbe abbastanza in fretta, anche se forse non proprio tra una decina di giorni. Nel secondo, forse, l’essere umano potrebbe regalare qualche possibilità in più per un futuro decente ai propri figli e alle future generazioni.
Che, sempre a mio umilissimo e modestissimo parere, su alcune cose della vita siamo, da un po’, davvero ad un punto di non ritorno.
Ora, in questo preciso momento sono propensa a voler credere, con tutta me stessa, nella possibilità di un domani migliore e voglio vedere, anche in tutto il chiacchiericcio intorno alla profezia, un segnale che porta a pensare che il mondo senta la necessità di un grande e vero cambiamento.
La mia compagna di corso di yoga, medium di vocazione, sarebbe d’accordo con me. Io, magari, entro sera avrò cambiato idea, dopo un pomeriggio di tosse soffocante, due riunioni all’asilo nido e, magari, la telefonata di emergenza alla pediatra.
Per ora, buon 12-12-12 a tutti, qualsiasi cosa significhi.

FREDDO (e CIOCCOLATO)

Non sono mai stata particolarmente golosa, neppure da bambina, e i dolci non sono mai stati la mia personale fonte di soddisfazione gastronomica. 
Da piccola mangiavo poco, o per lo meno così sostiene mia madre, per la quale, in ogni caso, ancora oggi io vivrei d’aria, non riuscendole possibile considerare mai realmente sufficiente il cibo assunto per il mio sostentamento.
Strano a dirsi, all’epoca della scuola elementare, o giù di lì, pare che i soli periodi in cui io mangiassi adeguatamente fossero rappresentanti dalla settimana di vacanza al mare con la zia G. che provvedeva a rimpinzarmi adeguatamente di focaccia, pastasciutta e olive verdi giganti.
Questo a dire che, dovendo puntare a prendermi per la gola o a procurarmi tentazioni culinarie importanti, sarebbe imperativo virare decisamente sul salato (e, divagando un attimo, da questo punto di vista temo che mio figlio abbia preso da me).
Vero è che, ogni tanto, capitano le eccezioni.
Da qualche giorno mi sento trasformata in una sorta di segugio per tutto quanto contenga anche solo tracce di cioccolato. Quello che per mesi in casa mia è totalmente ignorato al punto da finire nell’immondizia per ampio superamento della data di commestibilità, in questo periodo si sta trasformando in un bottino ricco e ricercato. 
La tavoletta di fondente alle nocciole, pensiero previdente della suocera, che avevo accettato con una punta di scetticismo appena una settimana fa, si è rivelata un potente salvavita nei momenti critici di calo zuccherino pre-pranzo e pre-cena.
Stessa sorte è stata riservata ai gianduiotti e ad un altro paio di cioccolatini acquistati sabato dal consorte.
Stamattina, intorno alle 10.30, la quotidiana dose di cacao è stata generosamente accompagnata da un quantitativo non identificato di noci, tanto che comincio fortemente a temere di riuscire a mangiare qualcosa a pranzo. E ho eroicamente resistito alla tentazione di finire l’ultima fetta di Sachertorte avanzata dalla cena di sabato.
Appurato che, così stiamo tutti tranquilli, non sono incinta e i fatti non possono essere imputati a strane voglie, e così neppure a sindromi ormonali varie, l’unica spiegazione rimanente è quella climatica.
Io soffro maleddettamente il freddo. Vorrei vivere in uno di quei paradisi climatici dove le medie di tutto l’anno galleggiano tra i 23 e i 27 gradi. 
E invece mi trovo ad osservare un surreale mondo ghiacciato, compreso il balcone dove ho steso da poco il bucato che sta producendo fumo (cosa che non ricordo di aver mai visto, a tal punto che se non fossi proprio sicura di non aver accompagnato il cioccolatino con altro, arriverei a dubitare di me medesima).
Con tutta evidenza il mio metabolismo truccato sta disperatamente tentando di immagazzinare calore in ogni forma possibile. 
Sono quasi tentata di preparare un cotechino per cena, così, tanto per completare l’opera e non farmi mancare l’opportuno apporto. Anche con due lenticchie, dai.
Che se avessero ragione i Maya al prossimo Capodanno non ci arriviamo e, allora, tanto varrebbe togliersi la voglia subito.
Ma c’è un però. La consapevolezza sottile, eppur presente, che tutto il cioccolato del mondo non potrebbe vincere. 
Che c’è un freddo, dentro, che non si può scaldare. 
Che certi pensieri, certi ricordi, una certa realtà che fingi di dimenticare, andando avanti comunque, rimarranno sempre ghiaccio.
Lì, al gelo delle nevi perenni.

PROVE DI NATALE

Stamattina, come da tradizione che si rispetti, la famiglia ha addobbato l’albero di Natale. Piccolo e finto, ahimè, qualcuno direbbe “ecologico” (anche se mi risulterebbe assai difficile collocare in tale categoria il petrolio cinese), che gli spazi della reale dimora non consentono grandi velleità alternative.
Quest’anno speravo che mio figlio avrebbe apprezzato e gustato i preparativi natalizi, visto che, da qualche giorno, sembrava vivesse solo per aver scoperto quello strano uomo tutto vestito di rosso che guida una strana slitta che vola tirata da animali sconosciuti. E che, fuori, qualsiasi lucetta scintillante è “luce natale”.
Per motivi assolutamente e scandalosamente egoistici sto tentando di praticare, nello stesso tempo, una delicata operazione di lavaggio del cervello infantile, provando con tutti i mezzi leciti e illeciti a far passare il concetto per cui “Babbo Natale porta i regali solo ai bimbi buoni. Per tutti gli altri, quelli che fanno troppi capricci e che non ascoltano mai mamma e papà, Babbo passa e non lascia niente!”.
Il risultato è totalmente nullo.
Tornando all’albero. L’attenzione del Patato è stata catturata per circa cinque minuti dalle palline, le stelle, gli angioletti e i babbi natale. 
Dopo di che le palline sono state utilizzate per lanci stile baseball lungo tutto il soggiorno. Il Babbo Natale ha subito immediatamente il lancio nella vasca da bagno. Gli angioletti sparsi ai quattro angoli della casa. L’unica cosa che sembra aver vinto stabilmente la Patato-attenzione sono le luci colorate. Non si può nemmeno pensare di spegnerle, pena urli sovrumani che arrivano alle viscere della terra.
Mi sorge spontanea una domanda: chi ha detto che a Natale sono TUTTI più buoni?!

MICA FACILE

Certo, si sapeva. Che ricominciare non sempre è proprio la cosa più semplice del mondo. Neppure con la prospettiva di lavorare dal soggiorno di casa tua, con il tè a portata di mano, a due passi dall’asilo di tuo figlio e solo per quattro ore la mattina.
Si sa che ci sono ritmi da trovare e ritrovare, ambiti in cui riorientarsi, pezzi di puzzle da sistemare nei propri spazi, e cose da scoprire, tipo cosa è successo nei mesi in cui tu sei stata altrove, a fare altro.
Certo, niente di inatteso o particolarmente sorprendente.
Ma capita ci siano altre cose da aggiungere, cose che, di per sè, nulla avrebbero a che fare con #ufficioincasa.
Tipo che tuo figlio, molto opportunamente, abbia ricominciato la follia delle notti insonni, dopo un periodo di pace e tranquillità che aveva fatto gridare al miracolo dell’autunno 2012.
Che adesso, da un po’ di giorni, trascorra le notti urlando nel letto come fosse braccato dagli alieni, che non voglia stare coperto nemmeno nel gelo di dicembre, che scalci via coperte e affini come ci fossero i 35 gradi di ferragosto.
Che, come sempre, non ci si capisca un bene amato cavolo. Se abbia fastidi, dolori, incubi o gli inspiegabili capricci dei terrible two (ma, i capricci di notte in stato di parziale incoscienza mi convincono poco)
E, allora, lì, a ricominciare il toto-perché. Sarà il mal di pancia, ha mangiato troppo, troppo poco, il lattosio, il virus intestinale, i molari che mancano, le giornate troppo lunghe, troppo corte, troppo piene, troppo vuote.
E io che ne so. Così come non l’ho saputo nei due anni precedenti di notti in bianco.
Certo, da alcune settimane anche il suo comportamento diurno sembra cambiato, e non in meglio. Ieri pomeriggio ha fatto una scena epocale di più di mezz’ora anche coi nonni.
Al nido mi dicono che è abbastanza incontenibile, non sta fermo, non ascolta quasi mai, parla molto poco, ma che in compenso non riescono a fargli smettere le sue performance musicali di “Fra’ Martino” e “Io Vagabondo”. Anche se lì pare dorma tranquillissimo.
Le sue capacità linguistiche non consentono ancora un dialogo vero e proprio, impossibile farsi dire se ci sia qualcosa che non va o anche solo farsi raccontare la sua giorntata. E allora qualche paranoia materna magari si affaccia. 
Chiederò un colloquio con la sua educatrice e, a seguire, un giretto dalla pediatra. 
Prima o poi dovrò pur capirci qualcosa, o no?