Il tuo posto nel mondo, ovvero lo scolapiatti improvvisato.

(Immagine dal web)

Non so di chi sia questa immagine, mi era capitata sott’occhio qualche tempo fa, accompagnata da una didascalia che diceva qualcosa del tipo: “Ti puoi adattare, ma non è detto che quello sia il tuo posto”.

Mi ha fatto riflettere parecchio, pensando a tutte le volte della vita in cui (in alcuni casi senza possibilità di alternative) siamo costretti a fare la stessa cosa. E quando così è non c’è molto da dire: si fa quel che è necessario e punto a capo.

Il problema si pone quando ci infiliamo in situazioni del genere volontariamente e coscientemente, o meglio per mancanza di consapevolezza di ciò che l’operazione comporta.
Peggio ancora quando, ciechi e sordi alla realtà delle cose, proviamo lo stesso trucco con i più piccoli, confondendoli, o provando a convincerli di essere qualcosa di diverso da ciò che sono, perché una convenzione, uno schema, un pregiudizio non elaborato ci tengono prigionieri delle fessure dello scolapiatti, che tra l’altro scolapiatti non è.
E allora devo dire che un po’ di sana rabbia, quella che ti fa mandare tutti a stendere, l’emozione più vituperata dall’universo dei finti buonismi, con il suo sacro fuoco di distruzione del falso, è la cosa migliore che possa accadere per riportare l’ordine. Quello vero, e sano.

La foto delle vacanze: sogni bianchi e blu

C’è una foto delle vacanze, scattata così, un po’ a caso, una delle ultime mattine, nella nostra caffettiera preferita per la colazione. L’immagine inquadra il tavolo e le prelibatezze mangerecce, mio figlio nella consueta pausa di riflessione prima di decidersi a occuparsi di ciò che ha nel piatto, il suo amico accanto, molto più deciso sul da farsi. Ma il tema è lo sfondo, assolutamente non pianificato. Dietro di noi un tavolino con due ragazze, il caffè e una bottiglia d’acqua, lo yogurt greco e una ciotola d’acqua per il cagnolino, sdraiato sotto la sedia a cercare ogni possibile spazio d’ombra.

Non sono del posto, parlano tedesco, ma non sembrano turiste, per le meno non di quel tipo che ha fretta di trascorrere le sue vacanze saltellando ininterrottamente da un luogo all’altro. Conversano rilassate, sandali e ampi pantaloni colorati, come se il tempo non esistesse, così come sempre dovrebbe essere in Grecia.

Me le immagino lì, ogni mattina, per tutta la durata della lunga estate. Non c’è fretta di arrivare alla spiaggia, al mare, alle attrazioni turistiche, hanno tempo. Magari hanno anche un lavoro, un atelier artigianale, ceramiche bianche e blu, che aprono con calma in tarda mattina, e un negozietto che accolga i turisti alla ricerca di un souvenir dopo la cena.

Mi ci vedrei così, in qualche mare del sud. Non potrei decorare ceramiche purtroppo, per assoluta manifesta incapacità, salvo miracoli inimmaginabili.

Ma un po’ di yoga sulla spiaggia, la mattina e al tramonto, penso si potrebbe fare.

Io, e l’attrito

(Testo e foto Carlotta G.)

Il colpo di coda arriva dieci minuti prima di uscire di casa, quando la lampo della valigia, non più vecchia di 4 anni, decide di abbandonarci mentre il treno per l’aeroporto ci aspetta. Le opzioni sono partire con una valigia che non si chiude o buttarne alla rinfusa il contenuto in due più piccole, precipitosamente raccolte dalla cantina.

È solo l’epilogo di una settimana di attrito ai massimi livelli storici, con un figlio malato 12 ore prima della partenza programmata per le tanto sospirate vacanze, un volo aereo spostato per due volte in sette giorni, senza avere fino all’ultimo la certezza di poter partire, quattro visite mediche in una settimana, due Covid-test (ma il lupo cattivo non è il lupo cattivo), compresa una corsa in notturna al pronto soccorso con dimissione alle due del mattino.

Una settimana di ferie buttata al vento per il Marito, che nel rendere produttive giornate senza senso, si mette coattivamente a creare lavori di fatica, manutenzione e ristrutturazione, giri in discarica, acquisti di un nuovo tavolo per il balcone, giustamente consegnato senza gambe, ché quando l’attrito inizia a spirare seriamente non c’è cosa che arrivi senza sforzo.

Siamo alla terza estate consecutiva in cui le vacanze non saranno davvero vacanze, in cui la speranza di recuperare fiato ed energie sarà pesantemente frustrata. Almeno a Zurigo c’è il sole, fa caldo, e l’estate più gagliarda che io qui abbia mai visto.

Intanto, perché il tutto ci vede benissimo, mi arrivano post di Eckart Tolle: “Fate pace col momento presente”. E così sia.