LA STRADA INCANTATA DEI FIORI

La strada incantata dei fiori (foto Carlotta G.)

L’ho scoperta un pomeriggio, per caso, mentre ero a spasso col Patato, proprio dietro casa mia. Era una bella giornata di sole, una delle prime da quando eravamo qui e, stranamente, mio figlio sembrava ben disposto a camminare, senza fermarsi ogni metro distratto da un qualsiasi particolare lo colpisse durante il cammino:  le bici, gli scooter, il camion o la ruspa di turno.
Avevamo approfittato di un’ora di passeggiata per scoprire i dintorni della nostra nuova dimora e, come a volte accade, girato l’angolo ci era apparso un altro mondo.
Una strada non molto larga, sui cui lati erano disposte case e casette di uno o due piani. Tutte immerse nel verde, circondate da fiori di mille colori. Un giardino con un laghetto, addirittura, qualche gatto in perlustrazione del territorio. Un cane che abbaiava e qualche bambino sul marciapiede a giocare, o seduto sulla panchina di fronte a casa. Un grande silenzio, interrotto solo da qualche rumore di vita quotidiana, dalle foglie mosse dal vento, dalle voci dei bimbi ogni tanto. Come vivere all’improvviso in  una dimensione parallela, di altri tempi e altri luoghi, e io lì, un po’ inebetita, ad aspettare che, da un momento all’altro, un folletto o uno gnomo dei boschi potesse attraversare la strada. Strada col rigoroso limite di 20 km/h, poi, poco più avanti, isola pedonale, accessibile esclusivamente ai residenti. Avrei voluto non finisse mai e, miracolosamente, mio figlio camminava, tranquillo, guardandosi intorno e perdendosi nei fiori di mille colori.
Sto scoprendo che ne esistono diversi di posti così, insospettabilmente nascosti dietro muri di anonimi condomini, al di là delle ampie strade che attraversano la città e i quartieri, a pochi metri dalla fermata del tram e dal centro commerciale. Stradine ad accesso limitato o riservato (in teoria) ai soli residenti che nascondono ampi giardini, spazi verdi, fontanelle e parchi gioco. Dove le case hanno la porta aperta, tante cose disseminate sul prato o sul balcone al piano terra, i panni stesi al sole, l’immancabile barbecue e montagne di giocattoli dei bimbi, sparsi per terra senza alcuna ringhiera, nessun cancello.
Mi meraviglio e mi perdo ogni volta, aspettando il folletto col cappello a punta e la calzamaglia verde che ci saluti, facendo “ciao, ciao!” con la manina fatata.
Ma non potrà mai più essere come la prima volta, quando, a due passi dal mio mondo banale, ho scoperto l’incantata strada dei fiori.

STRANEZZE

Nei prossimi giorni, mesi, o anche (forse) anni credo avrò infinitamente modo di parlare degli stereotipi. Quelli che accompagnano con sana ineluttabilità tanta parte della nostra vita.
Gli stereotipi collegati alla provenienza geografica delle persone sono, secondo me, quelli più “simpatici”, se contenuti ovviamente entro la soglia del buon senso e del buon gusto.
Inutile dire che quando la nostra testolina sente accendere il campanello sonoro corrispondente alla parola “americano”, piuttosto che “tedesco”, o “giapponese” che dir si voglia, nascono spontanei una serie di pensieri strettamente collegati a quelle che a noi sembrano le principali caratteristiche dei soggetti in questione.
E inutile dire che alla parola “Svizzera” l’immaginario italico colleghi tutta una serie di virtù o difetti certamente riconducibili al paese degli orologi a cucù.
Accanto al corollario di puntualità e precisione (che non intendo affrontare al momento, un giorno magari, chissà), normalmente si accompagna il tema della “sicurezza”, tanto amato e sentito nei giardini di casa nostra.
E con sicurezza intendo non soltanto il fatto di avere poche probabilità di essere derubati, truffati, aggrediti, rapinati e così via, ma proprio la sensazione che, in certi posti, (quasi) tutto funziona talmente bene, con precisione, puntualità e rigore (svizzero) al punto di pensare che non possa accadere seriamente nulla di male.
Tutti gli stereotipi, di qualsiasi natura, contengono un fondo di verità, accanto ad una buona dose di esagerazione che, probabilmente, vale la pena smascherare in tempo.
Sono a Zurigo da due settimane scarse, durante le quali mi è capitato di notare quelle che, ai miei occhi italiani, non possono che apparire come curiose stranezze. 
E, sorprendentemente, tutte sono strettamente collegate al tema della sicurezza, nel senso della individuazione di comportamenti e modalità di gestione dei pericoli così da prevenire incidenti e infortuni.
I parchi gioco per bambini hanno caratteristiche abbastanza anomale per le abitudini del bel paese. Tutte le attrezzature sono collocate su terreni di ghiaia, non certamente i più adatti a minimizzare le conseguenze di cadute e traumi dei piccoli frequentatori. Compaiono scivoli altissimi, tanto che anche l’adulto di statura superiore alla media fatica ad arrivare alla sommità in caso di interventi di emergenza. Non c’è nulla di gomma o di materiali morbidi o in grado di ammortizzare colpi o cadute, tutto (o quasi) è di legno o metallo.
I cantieri stradali, di cui la città è disseminata all’inverosimile, offrono protezioni fisiche pressoché inesistenti rispetto ai passanti e agli altri veicoli. Un paio di transenne, non di più e non sempre.
Ma la cosa più sorprendente, che mi ha lasciato attonita stile partecipante ad una candid camera ben riuscita, l’ho vista pochi giorni fa vicino a casa.
Avevo notato come, ad un certo punto, accanto all’ampio marciapiede che conduce al principale centro commerciale della zona, comparissero dei binari. Esattamente incastonati tra la parte pedonale della strada e la carreggiata dedicata al traffico automobilistico. 
“Sara un vecchio binario in disuso” mi ero detta, visto che si trova in una zona della città un tempo tipicamente industriale. Proseguendo il percorso, ad un certo punto, l’occhio cadeva su una scritta, fatta con uno spray giallo fosforescente, sulla striscia di asfalto tra i due binari: “BAHN!” (ferrovia)
Così, con tanto di punto esclamativo. Mi era sorto un sospetto, subito accantonato. Impossibile, siamo in uno dei Paesi più sicuri del mondo. Quello dove tutti gli edifici hanno il rifugio anti-bomba.
Qualche giorno fa camminavo verso casa dalla fermata del tram, lo sguardo arriva all’incrocio e vedo qualcosa che, onestamente, mai mi sarei aspettata di vedere nel bel mezzo di un quartiere residenziale di Zurigo, Svizzera.
Un treno merci stava tranquillamente attraversando la strada, sul suo binario dedicato. Senza nessuna protezione, nessun passaggio a livello. I pedoni, i bambini, fermi al semaforo, così come le auto, le biciclette, i tram.
Ho creduto di avere un’allucinazione, le settimane di trasloco devono avermi fatto davvero male.
Dopo qualche secondo tutto è tornato normale, il traffico, i semafori, le bici.
Inutile dire che io sono terrorizzata. L’idea di essere lì, tranquilla, in auto e trovarmi davanti un treno merci mi atterrisce.
L’interpretazione del marito nei confronti dello strano fenomeno è la seguente: “Se qualcuno è così stordito da farsi investire da un treno merci che passa in città a 10 km all’ora vuol dire che se lo meritava. E che, quindi, non valeva la pena salvarlo”
Il fatto è che temo abbia ragione.

CAMBIO DI STAGIONE

Il fatto è che non ero molto preparata, non del tutto almeno.
Che ti dicono che da queste parti le tonalità abituali del cielo sono il grigio, il grigio e il grigio. Che normalmente piove, piove e piove.
Non solo in inverno, o in autunno, anche se chiaramente in quei casi è peggio.
Vabbé, mi son detta, alla fine siamo a maggio e prima o poi il sole arriverà pure qui. 
Avevo scientemente accantonato in un angolo della lontana memoria le estati delle vacanze studio britanniche, quando, in pieno luglio, passavi dai 35 gradi della pianura padana al multi strato T-shirt, felpa, impermeabile, o, se andava male, giacca a vento. E ombrello, sempre e comunque a portata di mano.
Ma qui non siam mica così a nord, alla fine. Siamo poi a 300 km dalla pianura padana, mica a 3000.
E sarà che, fino ad ora, il meteo locale aveva fatto del suo meglio per illudermi alla grande.
In occasione della mia prima visita, a fine dicembre, c’erano 10 gradi, un cielo terso e spendente che incorniciava le montagne innevate e che sembrava l’anticamera del paradiso. 
Le altre volte pioveva, faceva fresco, il cielo era grigio; eravamo in inverno dopo tutto, ma mai particolarmente gelido e addirittura la giacca invernale sembrava di troppo. Non che in Italia fosse poi così meglio.
Prima di traslocare avevo fatto il possibile per gestire alla meglio il cambio di stagione. Via i piumini e piumoni, i maglioni di lana, le sciarpe pesanti e i berretti. Dopo tutto siamo a maggio e, dicono, la primavera svizzera è bellissima. La stagione migliore.
Avevo conservato in uso una giacca pesante per il Patato, che non si sa mai.
L’ho lavata pochi giorni fa, appena arrivata qui, pensando che, davvero, ormai sarebbe stata di troppo anche per Zurigo.
Mi ero illusa, appunto. 
Da tre giorni non si vede il sole, se non giusto all’ora del tramonto, quasi a irridere le tue speranze malamente riposte, dopo una giornata di furia degli elementi.
Piove, ogni tanto grandina. Tira un vento gelido. E stamattina c’erano 6 (dico 6) gradi.
Ho dovuto riprendere la giacca pesante del Patato, bardarlo con sciarpa, berretto e cappuccio per uscire. Ero tentata di infilarlo sotto la copertura anti-pioggia del passeggino, anche se in quel momento non pioveva. 
Ancora meglio sarebbe stato sotto vuoto, dopo due otiti maligne in meno di un mese.
Anch’io ho riesumato collant e cappello.
Mi dicono che, anche per gli standard di qui, non è molto normale. Che l’anno scorso di questi tempi era quasi estate.
Sarà per questo che vedo in giro persone coi sandali, improbabili shorts tipo spiaggia, gambe nude, scollature e spolverini invisibili.
Che la coppia tipo del posto prevede lui con maglietta, bermuda e scarponi da trekking, lei in jeans e ciabatte tipo Crocs ai piedi.
Inizio a pensare che il famoso “shock culturale” abbia, in verità, una precisa e specifica declinazione. Shock climatico.

COUNTDOWN

È iniziato il conto alla rovescia. Una settimana esatta all’inizio del trasloco per il Paese degli orologi a cucù.
Devo ammettere di essere un po’ in difficoltà; non che non me lo aspettassi, ma si ha sempre la speranza di qualche sorpresa positiva in se stessi.
Ieri sera, mentre cercavo di addormentarmi morta di stanchezza, mi sono resa conto che ormai da quasi sei mesi sono nel turbine di decisioni, pensieri, programmi e attività per l’espatrio. 
E sei mesi non son pochi, anche solo a livello di fatica mentale. 
È giunto il momento di finalizzare, chiudere e ricominciare là dove dovremo, per quanto complicato possa essere.
Ho raccolto pillole di saggezza che cerco di portare con me, con la consapevolezza che non mi abbandoneranno.
Che una volta capito cosa è davvero importante per sé il fattore tempo non è una variabile rilevante. Ci potranno volere giorni, mesi o anni, non importa. L’unica cosa che conta è dove sai di voler arrivare.
Che c’è sempre un grande valore nello scoprire ciò che non si conosce, di cui non si sapeva nulla e che la vita ti porta, in un modo nell’altro, a imparare.
Che nonostante il turbine di eventi impazziti, confusione e disordine, incertezze e perplessità, dentro di sé c’è sempre quel nocciolo infinito ed eterno, immutabile ed immobile che tutto governa, mantiene e preserva. Che senza di quello saremmo solo schegge impazzite, spazzate dal vento dello tsunami della vita.
Che, come direbbe qualcuno di mia conoscenza, c’è qualcuno lassù che, prima o poi, in un modo o nell’altro, sarà pronto a dare una mano, a indicare la strada, svelando ciò che è nascosto ai nostri occhi.
Che io, forse, lo direi in un modo diverso, ma credo esattamente nella stessa cosa.
Che gli “angeli custodi” si nascondo spesso dove meno te lo aspetti e dove mai ti saresti immaginata. 
Che, a volte, quelli su cui vorresti contare semplicemente spariscono, anche se sei tu quella che se ne dovrebbe andare.
E non capisci bene il perché.

DI NIDI E DI ADDII

Stamattina il Patato è rientrato all’asilo, dopo tre settimane di assenza.
Prima per l’otite & co, poi per la nostra settimana pre-trasloco a Zurigo.
Saranno i suoi ultimi giorni qui, la sua penultima settimana per l’esattezza.
E mi scende una lacrima quando ci penso, perchè  questa è una delle cose di cui più mi dispiace, dei tanti e diversi distacchi che il nostro trasferimento comporterà.
Ho sempre percepito il nido come un posto sicuro, un piccolo rifugio in cui lasciare mio figlio in buone mani, quando ero al lavoro o impegnata in altro, dove lui potesse abituarsi a condividere la vita con altri bambini, giocare, mangiare, riposarsi. 
Imparare altre cose del mondo, diverse rispetto a quelle di casa sua, di mamma e papà.
È vero, mi dico, che comunque questa esperienza sarebbe finita tra poco. Un paio di mesi e ci sarebbe stata l’estate e, subito dopo, il passaggio alla scuola materna (ehm…volevo dire dell’infanzia!)
Ma mi sarebbe davvero piaciuto fargli finire l’anno, fargli vivere la festa insieme ai suoi amichetti. Non strapparlo via così, in un giorno qualunque di una qualunque settimana dell’anno.
Dall’altra parte delle Alpi inizierà una nuova avventura anche per lui. Spero altrettanto bella e serena di quella vissuta in questi mesi nell’asilo italiano.
Sarà senz’altro diverso, inevitabilmente. Ci saranno nuove opportunità e grandi cambiamenti. Sentirà parlare due lingue, invece che una sola. E all’inizio una non la capirà. 
Farà orari differenti e non gli basterà uscire di casa e attraversare la strada per andare e tornare. Dovrà addirittura prendere il tram (chiaramente anche la mamma con lui e quanto le mancherà il nostro asilo dall’altra parte della strada!)
Non sarà per tutti i giorni della settimana, ma solo per qualche mattina.
Qualcuno nei giorni scorsi mi chiedeva info su come funziona in Svizzera.
Il sistema scolastico è abbastanza diverso dal nostro, ma al momento io mi sono limitata ad approfondire la parte che mi interessa, relativa ai più piccoli.
La scuola “materna”, o dell’infanzia che dir si voglia, lì comincia a cinque anni ed è già scuola dell’obbligo. Prima di questa età sono disponibili varie tipologie di nidi, tutti privati, non esistono infatti asili pubblici.
Se ne trovano più o meno per tutti i gusti, in tutte le lingue (le principali, almeno) e di tutte le correnti pedagogiche. 
Tutti, però, hanno un elemento in comune: i costi stratosferici, per lo meno secondo i parametri a cui siamo abituati in Italia.
Trattandosi di servizi esclusivamente privati, e considerando il costo della vita sensibilmente superiore al nostro, il risultato è che in Svizzera i piccoli vanno all’asilo nido solo se la mamma lavora e, soprattutto, solo nei momenti in cui lei è effettivamente fuori casa. 
Essendo diffusissimo tra le donne- madri il part time verticale (in cui si lavora solo alcuni giorni la settimana, due o tre, normalmente), i bimbi vengono iscritti al nido solo per i giorni effettivamente lavorati, nei rimanenti rimangono a casa.
A me pare un po’ strano, anche se conosco altri Paesi in cui funziona in questo modo. 
Mi ci dovrò abituare.

CONFESSIONI (DI UNA MADRE STANCA DI GUERRA)

Dovrei iniziare chiedendo perdono, in primo luogo per avere malamente parafrasato il grande(issimo) Jorge Amado. In secondo luogo per quanto andrò a dire su mio figlio.
Cerco di evitare, se posso e quando posso, la lamentela gratuita soprattutto nel blog, dove chi legge ha giustamente piacere di sorridere cinque minuti, di viaggiare leggero con la mente, al di là ed oltre le proprie fatiche quotidiane.
Ma ci sono momenti. Momenti dove si impone il punto di vista di una madre quasi espatriata, che trascorre i primi giorni in un Paese straniero e in una città estranea, in cui la primaria ed epidermica sensazione è, inevitabilmente, proprio di estraneità radicata e profonda.
Poi passa, si sa. Ma c’è e non puoi sempre fare finta di niente.
Capita così che le cose più banali, cercare un supermercato dove fare la spesa, trovare un indirizzo sulla mappa e capire come arrivarci, prendere un mezzo pubblico, richiedano un impegno leggermente diverso rispetto al pilota automatico a cui sei abituata tra le quattro mura di quella che consideri la tua casa.
E qui nasce il problema e lo sfogo di oggi. 
Pare (assai) brutto da dire, ma mio figlio è una zavorra. E non (solo) dal punto di vista psicologico, per la responsabilità inevitabilmente maggiore che si affronta espatriando con un bambino di due anni e mezzo al seguito. 
No, intendo proprio dal punto di vista fisico. Qualsiasi cosa, anche la più sciocca, davvero, l’uscire di casa, salire sul tram e scendervi, andare a comprare il pane e il latte, con lui sono una fatica enorme.
Far visita a una persona che devi conoscere, che non conosce né te né lui, un’impresa titanica.
Non so se tutti i bambini della sua età siano così. Ho l’impressione di no, ma non ne ho la matematica certezza da trarne una regola universale.
Mio figlio è forte, cocciuto, testardo. Non collabora mai. Disubbidiente per principio, anarchico per vocazione. Tutto ciò che esula dai suoi desideri e intenzioni diventa all’istante una questione di principio, un NO pronto a scatenare una guerra, con ogni arma e mezzo, anche l’inganno di sua madre, anche a due anni.
Non ha paura di niente e di nessuno, lui. Non viene praticamente mai intimorito da persone o luoghi che non conosce, al massimo abbozza mezzo minuto di timidezza assassina. Poi basta. 
Stamattina abbiamo visitato un asilo nido nuovo, qui a Zurigo. Dopo un minuto scarso dal nostro ingresso (UN minuto, non sto esagerando) era già in mezzo alla stanza a raccogliere piatti e tazzine dalla baby cucina, a cercare ruspe, camion e betoniere. Pressoché indifferente alla presenza di sua madre.
Qualcuno mi dirà che questi ” difetti” corrispondono, in realtà, a opportunità grandissime, per lui e il suo futuro. Ferrea determinazione, coraggio, furbizia, perseveranza, tensione verso gli obiettivi. In una parola: potenziale grandissima libertà e successo personale.
Ne sono grandemente consapevole. Ma, come in tutto nella vita, c’è un prezzo. Che potrà personalmente pagare mio figlio, nella malaugurata ipotesi che la sua determinazione sia espressa in direzioni sbagliate.
E c’è sicuramente un prezzo che, per lo meno oggi e ragionevolmente anche nel prossimo futuro, pagheranno i suoi genitori. Sua madre in particolare, in quanto persona che trascorre buona parte del suo tempo con lui.
Una continua, quotidiana, estenuante guerra per “addomesticare” la belva. 
Per riportarla all’umana consapevolezza che non si può sempre fare ciò che si vuole. 
Che, a due anni, certe scelte non sono proprio previste dal menù. 
Che non è possibile fare continue sceneggiate al supermercato perchè non vuol stare fermo, non vuole dare la mano, non gli piace il tipo di pane che hai scelto (e lui vorrebbe il pain au chocolat). 
Che non è possibile portarsi a casa i giochi dell’asilo in cui sei stato ospite in visita per un’ora. 
Che non è possibile, a due anni, ma neppure a dodici o a ventidue, decidere sempre tutto della tua vita, tendendo fuori dalla porta delusioni, frustrazioni, rabbie e rammarico.
Che, per nostra sfortuna umana, la vita di tutti è fatta anche di questi ingredienti poco attraenti, ma così è. E, in qualche modo, prima o poi, tocca accettarla. 
Ieri ho passato una intera giornata, con un mal di testa infernale, a pensare mio malgrado che non avrei voluto avere quella zavorra. 
Che sarei potuta andare, leggera e spensierata, su e giù da tutti i tram di questo mondo. Girare tutti i supermercati della città, curiosando le cose più strane ai miei occhi italiani. Fare duecento giri per le vie dello shopping, entrare ai grandi magazzini, passeggiare lungo il fiume ammirando i campanili dorati. Perdermi tra le viuzze del centro storico, ammirando le vetrine di boutique inaffrontabili, ma ricche di cose belle.
Mangiare qualcosa a caso, all’ora che mi andava, magari anche il panino col bradwürst, guardando i battelli attraccare e ripartire.
Senza nessun peso oltre a quelli inevitabili della vita. Di un trasloco per un espatrio nel Paese degli orologi a cucù. 
Senza una zavorra attaccata al braccio, senza la borsa strapiena e pesante  per il biberon dell’acqua, il vasetto di frutta per la merenda e le immancabili ruspe che si vuol portare appresso e che, dopo due minuti, rifila alla sua personale portaborse.
Dopo un po’ la zavorra si mette a dormire e, allora, scema un po’ anche l’insofferenza di sua madre, perchè quando dorme riconcilierebbe a sè anche il conflitto arabo-israeliano.
Ma questo non cancella quello che io penso e provo.
Che devo poi perdonarmi per aver considerato mio figlio duenne una malaugurata zavorra.

DOVEVAMO PARTIRE OGGI

Dovevamo partire oggi, tutti e tre, per la prima settimana ufficiale di lavoro del marito.
La prima settimana del nuovo lavoro per lui, tre o quattro giorni di “vacanza” zurighese per me e per il Patato, con la speranza che qualche raggio di sole rallegrasse una passeggiata sul lago, a vedere i cigni e le papere.
Ma in queste settimane qualcosa non funziona per il verso giusto. 
Mio figlio è sempre malato, non fa in tempo a riprendersi da una cosa che ricade in qualcosa di peggio.
Dopo una settimana intera di mal di gola, di orecchie, di denti e tutto quanto ci sta, speravo davvero che la Pasqua portasse una ventata di aria nuova, fresca e pulita. Soprattutto esente da microbi infestanti.
Ma no. Ieri mattina nuovo tour al pronto soccorso, dopo una telefonata alla guarda medica pediatrica che ha detto che era il caso.
Otite purulenta, con (sospetta, ma pressoché certa) perforazione del timpano.
Sette giorni di antibiotico. Sperando che vada bene.

Che guarisca bene e che il giro per fiumi e laghi funzioni meglio la prossima volta.
Che questa volta: “Papà va a Zurigo, ma Patato no, non può perché è malato. Patato resta a casa con la mamma e poi viene la nonna N.”
Che la mamma avrebbe giusto da fare qualche giro all’Ikea, che tra un mese traslochiamo.

WORK IN PROGRESS

Andata e tornata, e ripartita poco dopo per i lidi nostrani della nonna.
Approfittiamo del fine settimana, tra le pieghe del pendolarismo spinto del marito, per salutare i suoi amici (che, in realtà, già erano stati salutati un po’ di anni fa, ma ora i chilometri aumenteranno ulteriormente).
Tra un po’ non saprò più neppure chi sono, ma il bello è che in un giorno di “housing tour”, come lo chiamano, ho scoperto alcune cose simpatiche sul Paese della mia nuova dimora.
Tipo l’esistenza del “bomb shelter”, il bunker anti bomba, che per legge è obbligatorio in tutti gli edifici e che, qualora mancante, obbliga ad acquistare un posto in uno dei rifugi pubblici a disposizione di chi ne è sprovvisto.
Temo che le nostre facce fossero in quel momento un capolavoro da MoMa. Peccato non aver avuto la prontezza di un autoscatto.
Ho avuto poi la conferma che da quelle parti avere in casa una lavatrice privata è una specie di lusso. Nell’assoluta maggioranza dei casi la lavatrice è condivisa a livello condominiale, sistemata in un locale apposito (normalmente nel sotterraneo) e corredata di relativa asciugatrice (… E vorrei vederti mettere ad asciugare biancheria sottoterra in un posto in cui d’inverno fa – 15!) Nella “migliore” delle ipotesi i condòmini devono pure prenotare anticipatamente l’uso dell’attrezzo, tramite compilazione dell’agenda settimanale.
Dopo aver trascorso l’ultimo fine settimana con un fuori programma di tre (TRE) lavatrici in notturna, causa ennesimo malanno di mio figlio, sarei a questo punto disposta a vendermi l’anima per una che sia tutta mia, solo mia.
Pare siano abbastanza diffuse, e assai apprezzate, le cucine dotate di fornetti a vapore (mi dicono soprattutto per cuocere le verdure); i fornelli a gas non esistono, tutti i piani cottura sono elettrici in vetroceramica.
Molti appartamenti, anche di dimensioni non eccessive, hanno due bagni. Meglio: un bagno e una sorta di ripostiglio senza finestre dotato di un wc e un lavandino, o, nel migliore dei casi, un wc, un lavandino e una doccia. E qui conferma scontata per la notizia più temibile e avversata: il bidè non sanno neppure cosa sia
E arrivati ad una certa età cambiare così radicalmente alcune abitudini rischia di diventare un problema. 🙂

PERPLESSITÀ

Sto iniziando a sentirmi un pochino perplessa, o, forse, meglio sarebbe dire confusa.
Non ho dormito bene, con il sottofondo dell’ennesima tosse stagionale di mio figlio.
Ho fatto sogni strani, che ora non saprei riferire, ma in ogni caso poco tranquillizzanti.
E mi sono svegliata così, poco tranquillizzata.
Ho compresso nelle prime ore della giornata tutto quanto sono riuscita a far stare: il Patato, il lavoro, il preparare la cena, il pensare e decidere le strategie per il trasloco, l’elenco infinito delle cose da fare e che non finiranno mai. Non nei prossimi mesi almeno.
Il marito ha preso il suo treno ed è partito.
E io non credo riuscirò mai ad abituarmi  fino in fondo alla cosa. A sentire poi la sua voce al telefono, proveniente da un’altra dimensione, e non riuscire a evitare di pensare che si tratta di una persona diversa da quella che conosco io.
Sono uscita per andare all’asilo. Sono rientrata e ho acceso il pc. Ho notato che oggi è un’altra data un po’ strana: 13-03-13 e fatto in serie una serie di cose. 
Tra cui tentare l’aggiornamento delle mappe del TomTom, che non si sa mai. Peccato che penso non fossero aggiornate da qualche decennio e l’impresa si stia rivelando parecchio impegnativa.
Ho ricevuto una email in cui mi si chiede una foto del nucleo familiare per supportare il lavoro dell’agenzia immobiliare nella ricerca dell’appartamento in affitto. Sarebbe, anzi, ancor più gradito un profilo completo dei membri della famiglia, stile cv, corredato dalla suddetta foto.
Dovrò abituarmi agli usi e costumi che, con tutta evidenza, possono essere ben più lontani dei 300 km geografici.
Mia nonna diceva che “il mondo è bello perché è vario” (beh, in realtà era in auge una versione molto meno politically correct) e sono abbastanza convinta che sia vero.
Almeno per tutte quelle cose che riesci a capire, o che sembrano avere una loro logica possibilmente non stramba o discriminatoria.
Tipo che nel paese degli orologi a cucù le donne pagano un’assicurazione sanitaria più elevata degli uomini, a causa del “rischio maternità”. 
Cosa che avrà anche una sua logica economica, non dubito, ma a me fa un po’ strano.
Quasi di più della perplessità derivante dal dover mettere la foto di famiglia sull’application form per l’agenzia immobiliare.

P.s. L’unica foto disponibile che risponde ai parametri richiesti ci ritrae tutti e tre, in costume da bagno, durante la vacanza al mare la scorsa estate. Non so, sono perplessa.