“GIORNI GIAPPONESI” – Venerdì del libro

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Ho scovato casualmente “Giorni giapponesi” in una libreria, in una delle mie – non così frequenti – incursioni italiane. Non avevo mai letto nulla dell’autrice, che conoscevo indirettamente per essere la moglie di Tiziano Terzani, e sono rimasta incuriosita dalla possibilità di provare a leggere qualcosa dell’altra faccia della medaglia (o meglio, dell’altra metà della famiglia). Non essendo neppure mai stata in Giappone c’era dunque anche un certo interesse nel conoscere qualcosa su questo Paese che conserva, comunque sia, un aspetto tendenzialmente misterioso, scritto da di una persona che vi ha trascorso diversi anni della propria vita e che conosceva molto bene la realtà asiatica per esperienza diretta di vita personale e familiare.

Occorre anzitutto premettere che non si tratta né di un romanzo né di un saggio, ma sostanzialmente di un diario durato cinque anni (1995-2000), periodo della permanenza nel Paese del Sol Levante, immediatamente successivo agli anni trascorsi in Cina e precedente al trasferimento della famiglia in Thailandia. Lo stile, dunque, risente dei “limiti” dell’essere un diario, non sempre scorrevolissimo e a tratti un po’ ripetitivo. Chi cercasse recensioni sull’opera troverebbe numerose stroncature, non solo per ragioni stilistiche, quanto anche per la fortissima impronta “giudicante” con cui la storia e la cultura del Paese ospitante vengono raccontate e valutate. Dalla lettura emerge, in effetti, un’impronta fortemente critica – al limite del disprezzo – sulle strutture sociali, politiche ed economiche di quello che (negli anni in cui Angela Terzani Staude scrive) è il momento del massimo boom economico giapponese, quasi interpretato come un (in)diretto attacco ai valori e alle strutture di Europa e Stati Uniti d’America.

Non avendo nessuna diretta conoscenza della specifica realtà, e considerando anche che alcuni aspetti descritti risultano sicuramente datati e superati dalla storia, non sono certamente in condizioni di esprimere un giudizio critico con cognizione di causa. Stupisce comunque la durezza del giudizio, soprattutto da parte di una persona che per cultura, formazione ed esperienze di vita, dovrebbe essere stata avvezza a vivere e valutare la diversità come un valore. Resterà, dunque, per me un sostanziale mistero, se la realtà di una società e di una cultura siano state almeno parzialmente svelate, o al contrario completamente fraintese.

Tutta qui la cerimonia del tè?

Non ne ho capito il significato mistico – ho detto a Ulli

Non c’è – mi ha risposto prontamente – In questa cerimonia si tratta semplicemente di preparare, nel modo più estetico possibile, una tazza di tè per un amico.

L’estetica come paravento per il vuoto che vi si nasconde dietro?”

 

 

(Questo post partecipa al “Venerdì del libro” di Homemademamma)

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