Cose di Pasqua

È stata una Pasqua strana, una di quelle in cui non ci sono stati festeggiamenti, né qualcuno con cui celebrare qualcosa. Non poteva essere diversamente date le circostanze, e già è stato un mezzo miracolo fare due passi in una giornata che ha presentato per qualche ora qualche scampolo di primavera (poi drasticamente abortita ventiquattro ore più tardi) e un pochino di comfort food light, di quelli che piacciono a me. Esotico, senza pretese, ma che coccola l’anima.
Ma in questa città c’è spesso un “ma”, di quelli belli, che ti svoltano il pomeriggio anche quando pare non esserci nessuna premessa.

Nei due passi tra il locale del pranzo e la Bäckerei, dove prendere un po’ di pane per la cena, ho visto qualcosa che ha dato un senso alla giornata.
Di fronte al negozio c’era una Mini d’epoca, verde bottiglia, apparecchiata per il Brunch pasquale. E con apparecchiata intendo con sopra una tovaglia candida, tante leccornie e qualche fiore adagiati sopra. Lì attorno quattro ragazzi mangiavano e chiacchieravano.
L’istinto immediato sarebbe stato quello di immortalare tutto in una bella foto ricordo, ma non sarebbe stato educato.
Ho sorriso tanto, e con gli occhi a cuore sono passata oltre.

(Foto pexels.com)

Il (mio) limite

(Testo e foto Carlotta G.)

Dove sta il limite tra il necessario adattamento alle circostanze e il subire qualcosa di pessimo per se stessi?
Nel fine settimana sono andata a fare una gita in montagna con la famiglia. Era una giornata bellissima e gelida, il percorso non particolarmente impegnativo, ma il freddo mi ha fatta arrivare alla meta un po’ provata.


Al rifugio c’era il mondo dello sci di tutte le età e non solo, quasi impossibile trovare un tavolo libero e abbastanza difficile accaparrarsi qualcosa per un pranzo veloce, ma indispensabile a recuperare energie. Faticoso passare dal silenzio del bosco e dallo scricchiolio dei passi sulla neve al caos delle code al self service.
Visto che la regola è adattarsi per sopravvivere, ho resistito all’istinto di tornare subito da dove eravamo venuti. Il pasto non mi ha ripagata: il Rösti, che mi sarei mangiata anche molto volentieri, era letteralmente impossibile da ingerire per la quantità spropositata di sale.
Mi sono detta: “Vabbè, dai, un paio di bocconi, giusto per sfamarsi l’essenziale”.


Negli ultimi tempi ho avuto purtroppo parecchi problemi per un regime alimentare mal consigliato, e da me incautamente subìto per eccessiva diligenza (o stupidità che dir si voglia), e questa volta non mi sono fatta fregare: pazienza il cibo sprecato, pazienza il dover rifare la coda, pazienza tutto, ripieghiamo su una zuppa salva gelo, ma rispettiamo le esigenze della nostra salute prima di tutto. Quando è opportuno dire no, il no va detto. E il limite individuato. Il mio limite è sempre un confine precario, anche alla mia veneranda età, non sempre scontato e spesso il risultato di una sfida tra me e me medesima. La prossima volta si valuterà meglio il luogo della sosta

Le persone belle

(Testo e foto Carlotta G.)

Stamattina mi sono svegliata nel grigio e nel buio. Particolarmente grigio e particolarmente buio, che era meglio quando pioveva, non fosse che si stava allagando il mondo.

Questa settimana sto facendo particolarmente fatica in tutto, poi ogni tanto alzo lo sguardo verso il calendario e mi dico che al 21 mancano un paio di giorni e che dopo, pian piano, forse, potremo iniziare a sognare l’uscita dal tunnel.


Mentre sistemavo alcune cose in casa, mi è tornata in mente una frase di Michela Murgia: “Non è vero che il mondo è brutto, dipende da che mondo ti costruisci”. Mi aveva colpito tanto quando l’avevo sentita la prima volta, perché l’avevo trovata tanto vera.
É vero, ci sono tantissime cose che non possiamo decidere né scegliere, e che dobbiamo accettare così come sono, anche quando non ci starebbero bene per niente.
Ce ne sono però anche molte altre rispetto a cui esistono diversi margini di manovra, impervi a volte, ma ci sono. Vale soprattutto per le persone di cui ci circondiamo, che in buona misura, in circostanze abbastanza normali, siamo in grado di “scegliere”.


E per l’ennesima volta, dopo aver passato l’anno che ho passato (e che non è passato del tutto), mi sono detta che tutto sarebbe stato molto più difficile, se non avessi avuto accanto e intorno persone belle, che non hanno fatto nulla, se non esserci, con la loro vita così com’è, i loro problemi, le loro contraddizioni e i loro dolori, come tutti. Ma lì hanno scelto di stare, di fare una telefonata, un gesto, un pensiero, o semplicemente il loro lavoro, fatto bene, in scienza e coscienza, come si diceva una volta.


Ci sono anche gli altri, ovviamente, cosa difficile da ignorare. Quelli che la vita te l’hanno resa ancor più amara e difficile. Ma per scelta, ormai, quando possibile, il mio mondo non li comprenderà.

Alla fine, oggi, è uscito un po’ di sole dicembrino.
Buone feste.

Lucy e la guerra

Oggi accendono Lucy e in centro fervono i preparativi mondani (www.zuerich.com/it/visitare/luminarie-natalizie-di-zurigo).

Ieri è arrivato, giusto in tempo, il novembre brutto, il gelo, la nebbia e la Bise, il buio alle cinque. (Oggi, però, ad un certo punto ha vinto il sole per qualche ora).

Ho riparato in extremis le piante del balcone, ho scoperto che l’elleboro (che credevo non sopravvissuto all’estate e forse neppure all’inverno scorso) sta sbocciando con un piccolo fiore. Mi stupisco sempre di una certa tenacia delle cose della natura, che si fingono morte, magari per mesi, e poi all’improvviso si manifestano nel loro completo splendore.

L’inverno qui è sempre una guerra, più o meno cruenta, io non sono mai pronta, ma mi sono preparata.

(Testo e foto Carlotta G.)

Il gabbiano

(Immagine Pixels.com)

Stamattina ho visto volare un gabbiano, sullo sfondo scuro delle nubi cariche di pioggia, nel grigio profondo che lo circondava.
Così come spesso incontro con lo sguardo il falco, che volteggia sopra i tetti, a volte vicino alle finestre, alla ricerca di prede e sopravvivenza, gareggiando coi corvi per chi mangerà di più.
Novembre è difficile, spietato, angosciante, la manifestazione temporale della vita umana al suo peggio.
Passa, come tutte le manifestazioni della vita umana al suo peggio.
A volte, la vista di un gabbiano in volo salva la giornata.

Certe notti, così

(Foto pexels.com)

Stanotte mi sono svegliata verso le 4.30, come ogni tanto mi capita quando le nottate prendono una certa piega e, come al solito, ho faticato molto a riaddormentarmi. C’è da dire che stamattina mi sarei comunque dovuta alzare alle sei, per un appuntamento in ospedale per una cosa non proprio simpatica, per cui la cosa ci poteva anche stare.


Mi sono rigirata a lungo nel letto, un po’ caldo, un po’ freddo, con millemila pensieri che da chissà dove affollavano la mente.
Quando succede così cerco di non assecondarli, di non seguirli, sennò definitivo addio alle poche residue speranze di sonno.
Ad un certo punto, però, è venuta a trovarmi la casa bianca affacciata sul mare greco, il suo piccolo giardino con agrumi, le sue stanze fresche nonostante il sole cocente di agosto. L’alba bellissima che mi salutava ogni mattina dalla finestra della camera da letto, puntuale alle 6.00, e che nonostante mi svegliasse non volevo chiudere fuori, per non perdermi così tanta bellezza.


Ad un certo punto, senza che me ne accorgessi, mi sono riaddormentata e ho fatto un sogno insensato e super bislacco, su un’amica che non vedo da troppi anni, un luogo che non c’è (più), su qualcuno che voleva farmi del male e a cui non ho reagito benissimo. Alla fine, però, ero in qualche modo sopravvissuta.
Certe notti, così.

“Le cose come sono”

(Immagine Pexels.com)

Nel mese di marzo di quest’anno, mentre mi trovavo ad affrontare la prospettiva di un intervento chirurgico che aveva impegnato il mio quotidiano sin da Natale, ho iniziato ad avere problemi alla mobilità di un’anca.

Disturbi iniziati abbastanza in sordina, ai quali all’inizio ho dato molto poco peso, presa com’ero da interrogativi ben più pressanti sulla mia salute.

Nell’arco di alcune settimane la situazione è peggiorata al punto da impedirmi di sedermi a terra, di assumere posizioni per me assolutamente abituali e “scontate”, in cui stavo quotidianamente durante (e non solo) la pratica dello yoga, fino ad arrivare a non riuscire più a salire le scale e a camminare normalmente.

A quel punto sono ovviamente dovuta intervenire anche dal punto di vista medico, con accertamenti e terapie che, per vari motivi contingenti, sono andati purtroppo abbastanza a rilento. Oggi ho un quadro del problema relativamente completo, nonostante permangano notevoli punti interrogativi sulle cause scatenanti del disturbo che, nel corso di questo periodo, è leggermente migliorato nei sintomi, lasciando comunque immutata la forte limitazione alla mobilità dell’articolazione.

Mio malgrado, nonostante non abbia mai avuto una cosiddetta “salute di ferro”, pensavo e speravo di aver sufficientemente investito in tema di prevenzione almeno sul piano di una certa mobilità, guadagnata non senza fatica e disciplina, con anni di pratica. Ma, come dice il saggio: “le cose sono come sono” e noi non siamo necessariamente chiamati a capirne o scoprirne il senso. In questo momento nessuno è in grado di sapere se, prima o poi, riuscirò a recuperare la mobilità precedente e a risolvere i dolori che mi accompagnano.

Se così non fosse, con grande probabilità questo determinerà l’impossibilità da parte mia di continuare la vita professionale che, se pur piccola e di nicchia, avevo scelto e per la quale ho lavorato con sacrificio, dedizione e impegno (“Herzblut”, come dicono da queste parti) negli ultimi dieci anni.

Sto riflettendo perciò, con grande fatica e onesti momenti di scoramento, se abbandonare tout court o provare un gioco di prestigio, il tentativo di una piccola magia: continuare, pur con la forte limitazione che l’attuale condizione fisica comporta, e vedere cosa succede, con l’elevato rischio di scontrarmi con la cruda realtà delle cose del mondo, che certamente non agevola la presenza di una insegnante di yoga mezza zoppa, sostanzialmente impossibilitata, magari per sempre, a eseguire posture neppure così complesse, che dovrebbe invece insegnare agli allievi.

Io so, perché ne sono profondamente convinta e così mi è stato insegnato, che lo yoga non è un susseguirsi di posizioni, di esercizi da manuale, ma qualcosa di ben più profondo e alto rispetto a quello che si vuole esternamente vedere per comodità, o per propaganda “far vedere”.

Io lo so, ma non è lo stesso per la maggioranza del mondo, per il quale se già non fai fare qualche decina di saluti al sole e le posizioni capovolte sulla testa non stai certo praticando (o men che meno insegnando) yoga. Lo yoga dei perfetti, dei sani, dei performanti (sempre di più), quello che rende elastici e immortali fino all’età di (almeno) 120 anni. Quello per cui, alla fine, se non riesci a stare in una posizione è soprattutto per i tuoi limiti mentali, prima che fisici.

Rifletto, valuto i pro e contro, rifletto nuovamente e non trovo risposte al dilemma.

Rifletto anche su molto altro, ma di nuovo, staremmo andando troppo oltre rispetto alle possibilità di questo strumento.

“Quando vivete la vita di ogni giorno da un punto di vista di un «io non so», siete apertura. Ogni cosa è possibile. Vivete d’istante in istante, senza volontà di comprensione, senza confronti con il passato nè anticipazioni.” (Éric Baret)

Tanta bellezza

Dopo un decennio pieno di permanenza in terra elvetica, approfittando di un weekend lungo e di un meteo incredibile per la stagione, sono riuscita a varcare il Röstigraben e arrivare nella Svizzera francese.

Ho trascorso 48 ore con gli occhi a cuore, mai prima d’ora l’emoji mi sembrò più azzeccato. Laghi, cielo, vigneti (di cui qui sono mooolto orgogliosi e quasi quasi mi è dispiaciuto non bere vino), montagne, castelli, fiori, tramonti con panorami mozzafiato.

(Château de Chillon)
(Tramonto sul lago Lemano)

Poco più di due giorni tra Montreaux, Vevey e Losanna, per confermare il mio vecchio adagio “non ho ancora visto una città brutta in Svizzera”, superando addirittura ogni più rosea aspettativa.

(Losanna)
(Torre di Savaubelin – Losanna)
(Montreaux-Caux)
(Vevey)
(Vevey)
(Vevey)
(Montreaux)

Miracolo mare

(Testo e foto Carlotta G.)

Qualche settimana fa, poco prima dell’inizio delle vacanze, parlavo con un’amica (che beata lei al mare ci è nata e cresciuta) della convinzione del miracoloso influsso marino sulla salute, su tanti piccoli e grandi problemi della vita che, a volte, sembrano quasi d’incanto dissolversi al semplice contatto con l’acqua salata.
Ci dicevamo a vicenda di speranze (o illusioni) per ciò che di bello e buono e insperato sarebbe potuto accadere non appena fossimo arrivate alla tanto agognata meta, dopo lunghi mesi di attesa.
È un’idea che mi porto dietro da sempre – le dicevo – ma non potrà funzionare come quando eravamo bambine, come qualche anno fa, quando eravamo giovani, e la vacanza al mare era la soluzione a tutti i problemi del mondo – le dicevo.
Voglio credere che funzioni – mi ha risposto

Eh si, col senno di poi ha pure funzionato, sicuramente oltre le aspettative.
Il vero (grande) problema è che non è in alcun modo possibile esportare il miracolo: non appena da lì ti allontani questo svanisce, come la carrozza di cenerentola allo scoccare della mezzanotte.

“Felice l’uomo che prima di morire ha avuto la fortuna di navigare l’Egeo. Molte sono le gioie di questo mondo (…) ma poter solcare questo mare in un tenero autunno, mormorando il nome di ogni isola: credo non esista un’altra gioia che più di questa possa elevare il cuore dell’uomo in Paradiso.”

(Nikos Katzantzakis – Zorba il greco)