CONFESSIONI (DI UNA MADRE STANCA DI GUERRA)

Dovrei iniziare chiedendo perdono, in primo luogo per avere malamente parafrasato il grande(issimo) Jorge Amado. In secondo luogo per quanto andrò a dire su mio figlio.
Cerco di evitare, se posso e quando posso, la lamentela gratuita soprattutto nel blog, dove chi legge ha giustamente piacere di sorridere cinque minuti, di viaggiare leggero con la mente, al di là ed oltre le proprie fatiche quotidiane.
Ma ci sono momenti. Momenti dove si impone il punto di vista di una madre quasi espatriata, che trascorre i primi giorni in un Paese straniero e in una città estranea, in cui la primaria ed epidermica sensazione è, inevitabilmente, proprio di estraneità radicata e profonda.
Poi passa, si sa. Ma c’è e non puoi sempre fare finta di niente.
Capita così che le cose più banali, cercare un supermercato dove fare la spesa, trovare un indirizzo sulla mappa e capire come arrivarci, prendere un mezzo pubblico, richiedano un impegno leggermente diverso rispetto al pilota automatico a cui sei abituata tra le quattro mura di quella che consideri la tua casa.
E qui nasce il problema e lo sfogo di oggi. 
Pare (assai) brutto da dire, ma mio figlio è una zavorra. E non (solo) dal punto di vista psicologico, per la responsabilità inevitabilmente maggiore che si affronta espatriando con un bambino di due anni e mezzo al seguito. 
No, intendo proprio dal punto di vista fisico. Qualsiasi cosa, anche la più sciocca, davvero, l’uscire di casa, salire sul tram e scendervi, andare a comprare il pane e il latte, con lui sono una fatica enorme.
Far visita a una persona che devi conoscere, che non conosce né te né lui, un’impresa titanica.
Non so se tutti i bambini della sua età siano così. Ho l’impressione di no, ma non ne ho la matematica certezza da trarne una regola universale.
Mio figlio è forte, cocciuto, testardo. Non collabora mai. Disubbidiente per principio, anarchico per vocazione. Tutto ciò che esula dai suoi desideri e intenzioni diventa all’istante una questione di principio, un NO pronto a scatenare una guerra, con ogni arma e mezzo, anche l’inganno di sua madre, anche a due anni.
Non ha paura di niente e di nessuno, lui. Non viene praticamente mai intimorito da persone o luoghi che non conosce, al massimo abbozza mezzo minuto di timidezza assassina. Poi basta. 
Stamattina abbiamo visitato un asilo nido nuovo, qui a Zurigo. Dopo un minuto scarso dal nostro ingresso (UN minuto, non sto esagerando) era già in mezzo alla stanza a raccogliere piatti e tazzine dalla baby cucina, a cercare ruspe, camion e betoniere. Pressoché indifferente alla presenza di sua madre.
Qualcuno mi dirà che questi ” difetti” corrispondono, in realtà, a opportunità grandissime, per lui e il suo futuro. Ferrea determinazione, coraggio, furbizia, perseveranza, tensione verso gli obiettivi. In una parola: potenziale grandissima libertà e successo personale.
Ne sono grandemente consapevole. Ma, come in tutto nella vita, c’è un prezzo. Che potrà personalmente pagare mio figlio, nella malaugurata ipotesi che la sua determinazione sia espressa in direzioni sbagliate.
E c’è sicuramente un prezzo che, per lo meno oggi e ragionevolmente anche nel prossimo futuro, pagheranno i suoi genitori. Sua madre in particolare, in quanto persona che trascorre buona parte del suo tempo con lui.
Una continua, quotidiana, estenuante guerra per “addomesticare” la belva. 
Per riportarla all’umana consapevolezza che non si può sempre fare ciò che si vuole. 
Che, a due anni, certe scelte non sono proprio previste dal menù. 
Che non è possibile fare continue sceneggiate al supermercato perchè non vuol stare fermo, non vuole dare la mano, non gli piace il tipo di pane che hai scelto (e lui vorrebbe il pain au chocolat). 
Che non è possibile portarsi a casa i giochi dell’asilo in cui sei stato ospite in visita per un’ora. 
Che non è possibile, a due anni, ma neppure a dodici o a ventidue, decidere sempre tutto della tua vita, tendendo fuori dalla porta delusioni, frustrazioni, rabbie e rammarico.
Che, per nostra sfortuna umana, la vita di tutti è fatta anche di questi ingredienti poco attraenti, ma così è. E, in qualche modo, prima o poi, tocca accettarla. 
Ieri ho passato una intera giornata, con un mal di testa infernale, a pensare mio malgrado che non avrei voluto avere quella zavorra. 
Che sarei potuta andare, leggera e spensierata, su e giù da tutti i tram di questo mondo. Girare tutti i supermercati della città, curiosando le cose più strane ai miei occhi italiani. Fare duecento giri per le vie dello shopping, entrare ai grandi magazzini, passeggiare lungo il fiume ammirando i campanili dorati. Perdermi tra le viuzze del centro storico, ammirando le vetrine di boutique inaffrontabili, ma ricche di cose belle.
Mangiare qualcosa a caso, all’ora che mi andava, magari anche il panino col bradwürst, guardando i battelli attraccare e ripartire.
Senza nessun peso oltre a quelli inevitabili della vita. Di un trasloco per un espatrio nel Paese degli orologi a cucù. 
Senza una zavorra attaccata al braccio, senza la borsa strapiena e pesante  per il biberon dell’acqua, il vasetto di frutta per la merenda e le immancabili ruspe che si vuol portare appresso e che, dopo due minuti, rifila alla sua personale portaborse.
Dopo un po’ la zavorra si mette a dormire e, allora, scema un po’ anche l’insofferenza di sua madre, perchè quando dorme riconcilierebbe a sè anche il conflitto arabo-israeliano.
Ma questo non cancella quello che io penso e provo.
Che devo poi perdonarmi per aver considerato mio figlio duenne una malaugurata zavorra.